"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(29 maggio 2010) "Un fatto storico" si è detto oggi al Colle di Miravalle sopra Rovereto. No, non c'è nulla di retorico in questa affermazione. Perché oggi per la prima volta in un luogo pubblico e ufficiale in Italia, sventola la bandiera dei popoli gitani. Si aggiunge così a quelle di altre 88 stati, ma come è stato detto, questa non ha uno Stato, non ha una terra, non ha un esercito. Eppure all'ombra della Campana dei Caduti di tutte le guerre avrà lo stesso posto delle altre, sarà accanto a quelle di Stati potenti, a monito contro ogni forma di discriminazione.
In occasione di questo avvenimento straordinario, ho pensato che la cosa migliore poteva essere quella di proporvi questo racconto.
«Orhan parla nove lingue. Turco, rumeno, serbo, albanese, russo, slovacco, arabo, inglese e olandese. E' arrivato in Ungheria con sedici parenti dopo una fuga di duemila chilometri a piedi e in autobus attraverso cinque frontiere. La sua odissea comincia dopo i massacri, quando tenta di raggiungere Belgrado tagliando dalle montagne ma i serbi respingono lui e i suoi, prendendoli per albanesi. Allora gli sbandati cercano rifugio in Albania, ma li cacciano anche da lì, prendendoli per serbi. "Tornate dal vostro Milosevic!" gli urlano alla frontiera. Allora bussano alla Macedonia, dove altri rom aspettano nella terra di nessuno. Ma di notte, sotto la pioggia, le guardie sparano sull'accampamento. Così, alla cieca, per farli desistere. Muoiono in tre, di cui un bambino. Allora, a piccoli gruppi, quelli di Prizren ripartono. Fanno un altro giro, attraversano a piedi la Serbia del sud, entrano di notte in Bulgaria dalle parti di Leskovac. E quando da lì, passata la Romania, arrivano al confine ungherese, ecco l'ultima beffa. "Voi rifugiati?" li deride la polizia. "uno senza terra non può essere profugo». ...
«Dovevo andarmene prima» sussurra Orhan «Già negli anni ottanta avevo capito che quelli si sarebbero ammazzati fra loro. Le razze bastarde sentono con anticipo la follia dei puri. Noi rom non abbiamo mai fatto una guerra da quando abbiamo lasciato l'India mille anni fa. Non conosciamo l'odio. Ma è proprio per questo che la società ci rifiuta. Oggi, chi non si schiera è perduto. Non interessiamo neanche i giornali, siamo troppo complicati. La gente ha bisogno di storie semplici. In bianco e nero.
Ci dicono che non abbiamo il senso dello stato: ma se senso dello stato significa ammazzare per un pezzo di terra, certo che non ce l'ho, e non mi interessa neanche averlo. Per questo in ogni guerra siamo perdenti, per questo siamo sempre in fuga. E' toccato ai miei nonni, ora tocca a me. Mi sono detto: non uccidere e non farti uccidere. Me ne sono andato, con figli e nipoti, per le montagne. Scappavamo dalla guerra, ma ci sputavano addosso. E ora sono stanco. Ho bisogno di pace».
(tratto da "E' Oriente" di Paolo Rumiz)
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