"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Nicole Janigro
La guerra moderna come malattia della civiltà
Bruno Mondadori
Tracce da una lettura personale, che non vuol essere recensione
di Mauro Cereghini
Il decennio lungo che sta alle nostre spalle – quello racchiuso fra i due crolli, simbolici e reali insieme, del Muro di Berlino e delle Torri gemelle – ci ha fatto conoscere per la prima volta il fenomeno delle nuove guerre.
Conflitti armati cioè dove è ormai saltata qualsiasi separazione fra militari e civili, dove l’obiettivo non è più la conquista dello spazio fisico ma il controllo sociale delle persone, e dove il tempo della guerra non è il passaggio dovuto verso un futuro migliore ma l’unico orizzonte concepibile per il Signore della guerra ed i suoi uomini, mezzi combattenti e mezzi criminali. Caratteristica delle nuove guerre è così di essere – con le parole di Nicole Janigro –guerre
“assurde, sregolate, prive di obiettivi raggiungibili, che sfuggono ogni volta alle analisi di contesto. E’ il linciaggio post festum quando le armi si sono ormai tacitate, è la carezza di Ratko Mladic sulla testina bionda del ragazzino di Srebrenica che dà il via alla mattanza di diverse migliaia di maschi bosniaci, è il dente d’oro cavato al talebano morto nella fortezza di Mazar-I-Sherif dopo il massacro dei prigionieri. E’ quel “di più” che diventa essenziale. E’ quell’orrore “inutile” davanti al quale ci si ritrae, qualcosa di non spiegabile, non immaginabile, di non razionalizzabile. Perché, forse, non è la scarica di adrenalina finale che annuncia la pace, ma l’impronta, la zampata ultima che non riesce a nascondere quel che fino a quel momento è stato. A lungo rimossa, considerata un tema storicamente superato, collettivamente tabuizzata, la guerra di nuovo ci accompagna e, seppure in uno scenario profondamente mutato, è stata riabilitata” (p. 4).
E’ singolare allora che per parlare di nuove guerre, la Janigro – saggista, giornalista e traduttrice, a lungo impegnata attorno alle vicende balcaniche – abbia scelto di curare un’antologia di scritti prevalentemente del passato: vi compaiono infatti testi di Freud, Jung, Fromm, Fornari, Eibl-Eibesfeldt e Girard, assieme a tre saggi più recenti. Ma già il titolo della raccolta può spiegarne in parte il senso, perché “La guerra moderna come malattia della civiltà” richiama molti percorsi del pensiero novecentesco sui conflitti, sulla violenza e sulla minaccia tanto individuale del suicidio-morte quanto collettiva dell’estinzione atomica. Sotto questa luce, le guerre “etniche” degli anni ’90 sono viste come fenomeno estremamente nuovo – “combinazione inedita di modernità e barbarie, di guerre stellari e carneficine fin troppo umane” (p. 3) – e insieme figlio di un secolo e più di storia. Così,
“il “risorto nazionalismo serbo” – scrive la Janigro riprendendo il pensiero di Ivan Colovic, professore belgradese che molto ha scritto su questo tema – trasferisce sull’odierno legame tra guerra e mafia temi e fogge derivati dalla tradizione del ribelle bandito, che da delinquente sociale si trasforma in eroe nazionale. (...) Le identità ambigue che producono la peculiarità del razzismo e del nazionalismo contemporaneo appaiono un fenomeno strutturale e in progresso tanto in Occidente quanto nel Terzo mondo. In una situazione mondiale dove la violenza senza volto produce nuove povertà diffuse, le guerre etniche e religiose, non utilitaristiche, reintroducono la teoria e la pratica del genocidio: siamo al déja vu della “malattia della civiltà” ” (p. 13-15).
Una malattia che si nutre e si maschera di ragioni storiche antiche o di attualissimi diritti umani universali, ma nei fatti è sempre più povera di idealità.
“Le nuove guerre, condotte in nome dell’umanità, appaiono però sempre idealmente deboli, tanto da dover essere, ogni volta di nuovo, alimentate con le ragioni del passato. E’ la Shoah il peccato originale della post-modernità, la metafora del male da sconfiggere e da evitare, che assurge a criterio di classificazione di ogni conflitto. Nel caso della Bosnia, chi era favorevole all’intervento militare delle forze della NATO sosteneva fosse in atto un genocidio (...) Non ci sono più contendenti fra i quali scegliere, si può essere solo a favore, se in gioco è l’umanità” (p. 10-11).
E in questo manicheismo dei pro e dei contro è caduta del resto anche molta parte del mondo “pacifista”, riproponendo sterili ed inutili schieramenti. Al contrario, la natura stessa di queste guerre richiedeva di superare tutte le appartenenze per raggiungere veramente le vittime sul campo e costruire con loro, anziché per loro, la pace futura. E’ stato un manicheismo dai toni urlati – “La guerra del bene contro il male”, come hanno chiamato Blair e Bush gli assurdi bombardamenti sul povero Afghanistan – che ha impedito di cogliere le verità più banali e terrene: i calcoli e gli interessi geopolitici da ancient régime, le fortune costruite sui bottini di guerra, le mafie che controllano direttamente o indirettamente la vita politica di interi paesi, la deregolamentazione e i traffici illeciti come esito voluto e riconosciuto della ristrutturazione post-bellica di un territorio...
Il percorso di lettura che propone la Janigro ci spinge invece a guardare oltre le rappresentazioni più semplici delle nuove guerre, a superare la loro mera cronaca per cercarne i fondamentali (invarianti?) attraverso il contributo delle scienze sociali, dalla psicologia all’antropologia, dall’etologia alla filosofia e alla sociologia. Certo è un percorso ampio e che a volte si muove per assonanze più che per nessi logici; nel bilancio complessivo accentua forse la lettura personalista della “malattia guerra”, come somma di patologie e drammi individuali che abbisognano di altrettante cure individuali (è il tema del saggio conclusivo di Papadopoulos), a scapito di una lettura delle dinamiche sociali collettive. Ma resta senz’altro un contributo stimolante e utile, che tenta di spiegare – nelle parole di Fromm citate dalla Janigro – “la trasformazione dell’impotenza nell’esperienza dell’onnipotenza”. Si tratta di quella stessa constatazione che molti di noi hanno provato incontrando i giovani, feroci miliziani spesso insicuri e timidi fuori dai panni dei combattenti; di “quel senso di forza che deriva dalla capacità di trasformare un uomo in cadavere” (p. 23). E in un mondo che si avvia ad anni ancora di “Tempeste del deserto” e “Libertà durature”, di guerre super-tecnologiche da vedere in tv al fianco di guerre tribali e barbare quasi taciute dai teleschermi – due facce, si badi bene, della stessa realtà globalizzata – un contributo come questo della Janigro è certamente prezioso.
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