"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro

scrive Melita Richter Malabotta (*)

I grigi caselli del confine erano sbucati all’improvviso in mezzo al nostro raccontarci affannoso tra donne ed io trasalii: “Oddio, non ho il passaporto!”Non mi capitava mai di recarmi in un altro paese senza il passaporto, neppure da quando, per varcare i confini, è sufficiente esibire la carta d’identità: è piuttosto quest’ultima, il documento di cui spesso mi trovo sprovvista… Per fortuna, questa volta ce l’avevo e passai indolore il primo controllo al valico di Rabuiese. Era la mattina dell’otto marzo. Poco distante, nella striscia della terra di nessuno, che preferisco chiamare terra di mezzo, era stato previsto l’incontro con donne provenienti dal capodistriano; una consuetudine ormai collaudata tra le amiche italiane e slovene nell’occasione della Festa delle donne. Si tratta di un appuntamento che, dopo il giubilare scambio di omaggi floreali, consente alle donne da ambo le parti del confine di tramutare il momento del gioioso stare insieme in un’opportunità di lavoro e di riflessione sulla condizione femminile, su quanto si è fatto e quanto andrebbe fatto nel prossimo futuro. Spensierata ed emozionata per l’appuntamento al quale io stavo partecipando per la prima volta, mi scordai del tutto che a due passi vi era un altro confine, quello sloveno. Passeggiando sottobraccio con Ester e con Ilde, ci incamminammo oltre la frontiera. A passo lento varcammo il passaggio con le sbarre alzate e arrivammo dalla parte slovena senza che nessuno ci chiedesse niente; né documenti, né cose da dichiarare… Me ne resi conto soltanto dopo essere arrivata al luogo dell’incontro. Al ritorno, stipate nella macchina di Carla, ri-attraversammo i due confini con i nostri documenti in bella vista, ma nessuno se ne fece cura; un semplice cenno di mano del funzionario di turno ci affrettava nel passaggio del confine e, dopo ’20 minuti di guida, ci trovavamo a Trieste, di nuovo “a casa”. Ordinariamente normale, pensavo, così come dovrebbe essere ordinariamente normale spostarsi nel mondo, senza frontiere e senza impedimenti di alcun tipo…

Passare i confini senza rendersene conto, in una passeggiata mattutina, consapevoli o inconsapevoli del valore reale e simbolico dell’azione. Ho assaporato questa piacevole sensazione e me la cullavo lungamente a palpebre socchiuse. Mi abbagliava la possibilità che ci si prefigge in una Casa Europa futura, un’Europa ricomposta (preferisco pensare alla re-integrazione europea piuttosto che all’allargamento, un concetto che contiene l’arroganza e l’eurocentrismo dell’Occidente), dalla quale tuttora siamo distanti. Per completare il quadro immaginario, fantasticavo sulla mobilità non soltanto fisica, ma culturale, linguistica… Sognavo un naturale e fluido utilizzo delle lingue diverse, il passaggio da un idioma all’altro, magari con l’aiuto di una lingua terza, eletta a lingua franca; una lingua di comunicazione delle genti confinarie, non lingua–simbolo di qualche appartenenza esclusiva… Per niente impossibile; a volte i nostri avi lo hanno sperimentato. I dotti dell’area mediterranea non di rado erano plurilingui e il latino fungeva da collante letterario tra le sponde opposte, mentre il greco e il fenicio si erano infiltrati già in tempi remoti tra le reti del commercio e i nodi della navigazione… Anche nello spazio culturale dei miei genitori e dei progenitori loro, la conoscenza di diverse lingue slave, di tedesco, ungherese, italiano e latino, non faceva eccezione… Perché non ora? perché non qui? Immaginavo la leggerezza mentale con cui oltrepassare i confini linguistici senza per questo sentirsi privati del “marchio identitario”, temere di perderlo, di erodere e disonorare il sacro vessillo dello stato… Me ne rendevo conto che anche da questa meta siamo tuttora lontani. Ce lo ricordano le insegne bilingui imbrattate nei dolci paesaggi carsici e gli accesi discorsi di coloro che nel segno dell’Altro, nella sua parola scritta e parlata, nella sua canzone cantata in uno spazio “improprio”, vedono il pericolo della perdita della propria anima culturale.

Nelle zone di confine, la cultura è spesso stata usata come roccaforte dell’identità nazionale. Quello di cui oggi c’è bisogno sono le nuove strategie di avvicinamento di due o più culture per abilitarci ad oltrepassare la diffidenza con cui i “piccoli” (stati, nazioni, gruppi minoritari non soltanto etnici) affrontano e temono una possibile nuova dominazione culturale emanata dai centri di potere, siano essi vicini o lontani, siano situati all’interno, oppure oltre le frontiere nazionali.

Per un futuro dei rapporti paritari tra i due o i tre paesi che convergono nell’area, rapporti che sicuramente avranno risonanze in un raggio più vasto di quello regionale, si dovrà riflettere anche sulla questione linguistica e sull’importanza della conoscenza dell’altro, della sua lingua e della sua cultura.

* * *

Nel Vocabolario della lingua italiana, il confine significa “limite, termine, pietra, sbarra, steccato che delimita una proprietà. Linea costruita naturalmente o artificialmente a delimitare di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno stato. ” Nelle lingue slave l’espressione per confine è granica, la parola il cui significato, oltre a quelli già elencati, significa orlo, la fine (kraj; di cui la krajina, il territorio confinario), il limite fino al quale si estende la proprietà e il dominio di una persona, di un gruppo di persone, di uno stato. Un limite nello spazio.

Il confine presume la diversità che sta al di là dell’area che esso delimita. Si tratta di una diversità reale o artificiale, la cui vicinanza a fior di pelle con l’identità che il confine racchiude, spesso provoca attriti, incomprensioni e, a volte, una vera ostilità reciproca. Il confine si pone come violenza in ogni tessuto che esso attraversa. E’ come se il continuum di forme geografiche, culturali, linguistiche non esistesse ed in ogni punto la realtà potesse essere spezzata e separata in almeno due gruppi opposti. Ciascuno dei corpi separati conserva in sé ciò che gli è proprio e lo fa in opposizione all’altro. Trovandoci da un lato del confine, riconosciamo tutto ciò che esso delimita come “nostro”, “proprio”, “identitario”, mentre quello che è proprio per l’Altro, per noi diventa estraneo, alieno. In base al compiacimento e alla volontà politica di chi detiene il potere è facile tramutare ciò che è straniero, estraneo, alieno in nemico. Il passo successivo è: attribuire al nemico qualità “disumane”, o meglio, privarlo di ogni qualità. Il confine concepito in questo modo porta alla facile attribuzione a ciò che sta “oltre” di essere una minaccia alla nostra stessa identità. Vorrei distanziarmi da una simile interpretazione del confine e avvicinarmi a un concetto diverso, alla soglia.

“La soglia”, come dice Johann Drumbl “è il confine visto nella prospettiva dinamica del suo superamento, è il luogo della creatività”. Lo stesso autore cita un’intervista che Peter Handke, scrittore austriaco, aveva dato al germanista svizzero Herbert Gamper, nella quale egli elabora il concetto di soglia. Il discorso si riferisce a un’opera letteraria, ma è tale il concetto che più si avvicina a quanto cerca di esprimere il nostro titolo:

“Questo vuoto, questo vuoto ondoso, celestiale, fruttuoso e accattivante non mi è mai apparso nella natura deserta bensì sempre vicino agli uomini. Ed era sempre ai margini che è successo, per esempio, ai margini di una città, oppure ai confini tra foresta e steppa, è proprio strano: sempre presso i confini o, meglio, sulle soglie. Sempre là. ” La soglia quindi, come luogo di passaggi, come uno spazio intermedio dove la densità identitaria si fa più leggera e dove il tempo rallenta e permette di soffermarci e di riflettere sul nostro stesso essere, su quanto custodiamo e quanto ci dona la prossimità dell’altro. “La soglia”, dirà ancora l’autore “come luogo della sospensione, lo spazio nel quale attendere” .

Sono le soglie, non i confini a permetterci di vivere le terre di mezzo, sono esse il luogo e lo spazio dove si facilitano l’incontro, il contatto, la contaminazione. Sono luoghi di ricerca non di sconvolgimento; sono esse il primo presagio dell’annullamento dei confini.

In queste terre la parola confine ha sempre serbato in sé conflitti e tragedie, vincitori e vinti, sopraffazioni e umiliazioni, resistenze e ribellioni, e capovolgimenti… Ma, sono state queste le terre che hanno dimostrato una tenace volontà di superare la maledizione di “eterne contrapposizioni”; è stato su questo confine che è avvenuto il primo scostarsi della cortina di ferro tra i due mondi contrapposti. Il gelo ideologico si stemperava nelle acque dell’Adriatico; qui, alle porte di Trieste, i due mondi non furono mai del tutto separati. Già nel lontano estate del 1950, con l’apertura del valico confinario della Casa rossa di Gorizia, si volle promuovere il primo significativo incontro tra le popolazioni confinarie. L’incontro, come scrive lo storico sloveno Bozo Repe, “fu promosso allo scopo di rinnovare i legami di amicizia e parentela compromessi dal confine. (…) Il confine fu letteralmente abbattuto da un’inarrestabile moltitudine proveniente dalla parte jugoslava che, sbandatasi per i negozi di Gorizia continuò indefessamente a comprare…”

Da allora, il passaggio del confine divenne un fenomeno di massa. Negli anni ’60 la Jugoslavia si aprì al mondo, il tenore di vita si fece notevolmente più elevato di qualsiasi altro paese socialista, la maggior parte dei cittadini possedeva il passaporto e si muoveva all’estero senza ostacoli di tipo burocratico o politico. In occasione della festa della Repubblica, il 29 novembre, Trieste, “la prima finestra dell’occidente” soleva diventare meta di 250.000 acquirenti jugoslavi . Quanti ricordi legati all’epoca, quanti aneddoti sulla mitica piazza Ponte rosso, e poi, tutta quell’arte di occultare la merce ai passaggi della frontiera e l’indicibile sollievo dopo aver superato l’ultimo esame doganale… Ricordi sbiaditi, lontani, ricordi che hanno fatto storia nei rapporti tra i due paesi. Milutin Mitrović, giornalista jugoslavo che attualmente vive a Trieste, annota:

“Per la generazione alla quale appartengo, Trieste rappresentava una prima finestra sul mondo oltre la “cortina di ferro”. Qui venivamo ad acquistare i nostri primi impermeabili che, per il fruscio che lasciavano, chiamavamo suskavci ed i nostri blue jeans, ma arrivavamo anche per ammirare la bellezza della città, i suoi musei, le sue fondazioni cui avevano dato origine i nostri avi. Fieri ed estasiati guardavamo la chiesa di San Spiridione, il palazzo Gopcevich ed altri maestosi edifici, costruiti dai Tripcovich, dai Kurtovich e da altri ancora. L’occidente che ci attraeva e di cui in parte diffidavamo, ci ha accolti a Trieste in modo amichevole, con un sorriso e con la possibilità di comunicare nella nostra lingua” .

Come ricorda nel suo studio il già nominato storico Repe, questi spostamenti di massa di cittadini jugoslavi e, contemporaneamente, degli italiani che oltrepassavano il confine per “fare la spesa” e per le vacanze frequentavano la costa dalmata, le isole e la terra istriana, ebbe una conseguenza diretta nel Trattato di Osimo firmato dall’Italia e la Jugoslavia nel 1975. In molta parte il Trattato avvalorò la realtà già esistente: decretò la nascita del confine più aperto mai esistito fino ad allora tra un paese capitalista e uno socialista. Solo nel 1976 nella provincia di Trieste a transitare il confine furono più di 40 milioni di persone di cui 21 milioni con il passaporto e 19 milioni con il lasciapassare.

Innumerevoli contatti, tuttavia, non potevano rappresentare ciò che noi consideriamo “condizione di soglia”: spesso non si trattava d’altro che vivere gli uni accanto agli altri con una garbata non-compenetrazione, in un convalidato non-contatto. Si potrebbe dire: vivere la diversità non comunicante, lontano da ogni contaminazione e da una fusione culturale creativa, palpabile. Coesistenze mute nella loro chiusa diversità. Sull’argomento vi è la bellissima testimonianza poetica di Giorgio Depangher, scrittore di origine istriana e di formazione culturale italiana:

“Nel paese della bora, dal mare al Carso,
cortine di nebbia ristagnano.
Identità si specchiano
mute
nella loro chiusa diversità.
Dell’assurdità del guardarsi
e del non vedersi,
del parlare e del non sentirsi,
di quest’esser contemporanei
allo scoiattolo bruno
e mai alla rjava veverica,
al bianco calcare
e mai al bel apnenec,
al verde ginepro
e mai allo zeleno brine” .

* * *

La Slovenia, stato indipendente e primo confinante orientale dell’Italia, fa parte dello sparuto gruppo di paesi dell’Est che sono previsti ad entrare nell’Unione Europea nel 2004. Il confine di cui abbiamo parlato, tracciando la sua natura propulsiva, nel frattempo è diventato più rigido, non tanto nei confronti delle popolazioni confinarie, ma nei confronti dei disperati di turno, in quanto oggi esso rappresenta anche il confine di Schengen, un’ulteriore cinta dell’Occidente europeo. Con l’entrata della Slovenia nell’UE - è soltanto questione di tempo – questo confine perderà gradualmente il proprio ruolo di separazione tra le due realtà statali. L’Italia e la Slovenia diventeranno paesi membri della stessa entità europea sovranazionale, membri di pari diritto e di condivise responsabilità. Il primo trapasso storico tra i due mondi è già avvenuto, quello successivo, il varco tra i due modi di essere, ha ancora da avverarsi. I muri divisori dell’Europa dei due blocchi hanno cessato di esistere. Non ci sono più ragioni ideologiche di coltivare antagonismi e timori reciproci: tutti questi sono elementi di enorme rilevanza politica e culturale.

Nell’area del “confine orientale” (visto dall’Italia) e “confine occidentale” (visto dalla Slovenia), sono molti i fattori che annunciano un nuovo clima di relazioni. Ciononostante, mentre molti confini della vecchia Europa si affievoliscono e cessano di esercitare il loro micidiale potere di separazione, vi sono altri che emergono, che vengono imposti col vigore delle armi o con le nuove ideologie d’esclusione; sono queste le nuove ferite sul corpo provato dell’Europa, affranta nell’osservare interminabili smembramenti dei suoi luminosi paesaggi multiformi. Le nuove divisioni sono d’obbligo anche in Istria, gli steccati conficcati pure alle spalle della mia città natale, Zagabria; essi soffocano l’essere sociale, storico, culturale delle aree indivisibili… Mai avrei potuto auspicare queste nuove lacerazioni. Ci dicevano che si sarebbe trattato di separazioni “morbide”, formali. Io sapevo che dicevano frottole e disseminavano le notti buie balcaniche di specchietti per le allodole… Specchietti convessi dove ognuno avrebbe potuto specchiarsi da sé, solo con i propri simili, stesso con lo stesso, immacolato, e, compiaciuto, avrebbe potuto ammirare la propria immagine distorta.

Oggi il cordone sanitario della terra di nessuno cinge la ferita profonda inflitta da nuove frontiere ai cui bordi crescono sbarre e barriere, caselli e cancelli di dimensioni impressionanti sotto cui tettoie si danno cambio zelanti funzionari di vari corpi di polizie in uniformi nuove di zecca… Ogni confronto/scontro con questa realtà, con i nuovi rallentatori dei liberi spostamenti umani, ci infligge un dolore lacerante che invade lo stomaco, nonostante la mente rimanga lucida e ribelle. L’autrice istriana Nelida Milani scrive:

“La ferita si è riaperta nel corpo stesso della terra. E’ un taglio nella collina alle spalle di Castelvenere, o meglio, due tagli fra Slovenia e Croazia, sul fiume Dragogna e a Siciole. Un lungo e inutile confine impastato di nuovi afrori coloniali, che corre tra i cespugli di timo e gli spini di grattaculo, oltre il quale si vede altra campagna, la stessa: la stessa trama di pini, il cielo che non vuol fingere altro cielo. Ogni volta che devo attraversarlo, fra i camion e la squadera di una gru rossa sulla strada sterrata, mi sento imbrattata di rabbia e di impotenza. Una irritazione sorda, una ripugnanza rancorosa, cattiva”.

Ciò che resta da fare è: non soggiacere alle nuove spartizioni, non cedere al senso d’impotenza e ancora meno a un comportamento di auto-censura che induce all’auto-limitazione del proprio spostarsi nello spazio, sia fisico che mentale. Non stancarci di sfidare i confini di vecchia e di nuova data. Osare la strada verso l’Altro, per lui e per sé stessi. Perché i confini sono imposti dagli uomini e da essi potranno essere cancellati. I veri attori di annullamento dei confini sono le donne e gli uomini che attraversano i diversi contesti geografici e culturali. In queste terre di confine abitate da popoli di confine, popoli meticci, bastardi, contaminati vicendevolmente, è l’unica via da seguire.



(*)Melita Richter Malabotta, nata a Zagabria, laureata in sociologia, master in sociologia urbana. Vive in Italia dal 1980.
Coautrice del libro "Conflittualità balcanica, integrazione europea", Editre Edizioni, Trieste, 1993, curatrice del libro "l'Altra Serbia, gli intellettuali e la guerra" , Selene Edizioni, Milano,1996.
Curatrice del libro "Le guerre cominciano in primavera. Soggetti e genere nel conflitto jugoslavo", Rubettino editore, 2003.
Membro del Centro di Ricerche Etnico Politiche Internazionali (Roma/Trieste). Svolge attività di mediatrice interculturale in Friuli e Venezia Giulia. Membro fondatore della cooperativa Interethnos e dell'associazione Multietnica di Trieste.
Curatrice della materia alla Facoltà di Formazione dell'Università di Trieste.


» Fonte: © Osservatorio sui Balcani

 

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