"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

La questione morale del nostro tempo

Non so tenere il conto. Lo dico con il cuore pieno di tristezza ma davvero non ricordo – per quante sono state – le manifestazioni e le iniziative a favore della causa palestinese alle quali ho partecipato dall’inizio degli anni ’70 ad oggi. Mi descrivono, questo sì, l’impotenza e forse anche l’inutilità, di fronte alle drammatiche immagini di distruzione e di morte che vengono in queste ore da Gaza. Il mondo è cambiato, sono finiti i blocchi e caduti i muri, ma quella palestinese – come ricordava qualche anno fa Nelson Mandela – continua a rimanere “la questione morale del nostro tempo”.

E mi riesce insopportabile rivedere, dopo più di trent’anni, le stesse immagini di Tall al Zaatar (Libano, agosto 1976) seguite dagli stessi rituali di allora, l’odio, le proteste, la diplomazia che si muove quando ormai è tardi, la falsa coscienza di un’Europa che non ha ancora elaborato l’Olocausto, le Nazioni Unite paralizzate dai veti e anch’esse impotenti di fronte ad uno degli eserciti più agguerriti del mondo. Invece di cercare il nemico, dovremmo interrogarci e provare a dare risposte che non siano autoconsolatorie, tanto per cominciare con il comprendere che il bandolo della matassa è il riconoscimento del dolore degli altri. Perché è solo da lì che può prendere il via un vero processo di riconciliazione. Tanto per essere chiari, non vorrei più vedere la disperazione delle madri con i loro bambini esanimi fra le braccia ma nemmeno bandiere bruciate e qualcuno che invoca la morte dell’altro. 

Era il 30 dicembre 1987. Andai a Tunisi ad incontrare Khalil al-Wazir, meglio conosciuto come Abu Jihad. Era il vice di Arafat, ma soprattutto una delle persone più amate nei territori occupati e il leader della prima “Intifada”, allora inedita forma di resistenza nonviolenta del popolo palestinese.
Abu Jihad non era un pacifista, come non lo era Arafat. Erano militanti e dirigenti cresciuti in un contesto di violenza e la forza militare era parte della loro formazione culturale e politica. Ma con lui parlammo, fuori dai denti, proprio della forza della nonviolenza, della scelta di investire sulla formazione piuttosto che in eserciti, tanto che ci accordammo – fra l’altro – per una campagna di borse di studio per i giovani palestinesi da attivare nelle università italiane attraverso le regioni e gli enti locali. Era la strada della diplomazia dal basso che iniziavamo a percorrere e che, al di là degli effetti concreti che pure toccammo con mano negli anni successivi, indicava la volontà di far parlare la forza della ragione piuttosto che quella delle armi.  
Ho un ricordo indelebile di quell’incontro e di quella casa perché di lì a qualche mese, il 16 aprile 1988, con un’operazione militare che provocò il parziale black out nella capitale di un altro paese, i servizi israeliani fecero irruzione in quello stesso edificio ed assassinarono Abu Jihad davanti ai suoi famigliari.
Fu un duro colpo all’evoluzione nonviolenta del conflitto. E così nel corso degli anni, ogni volta che la pace sembrava mettere radici, c’era qualcosa che interveniva per estirparla: l’assassinio di Rabin, la provocazione di Sharon sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati, la guerra in Iraq, il muro della discordia, l’avventura dell’esercito israeliano nel Libano meridionale. Ogni volta in nome della sicurezza, le armi hanno legittimato le armi. Così i fondamentalismi. E le pietre si sono trasformate in kalashnikov.

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Immagini che mi passano davanti in queste ore, di fronte all’ennesimo bagno di sangue in Terrasanta. Come da rituale, l’obiettivo dichiarato del Governo Israeliano sarebbe quello di liquidare Hamas. Benché si sa che l’effetto sarà esattamente l’opposto. L’effetto della guerra che si combatte in queste ore nelle strade di Gaza sarà paradossalmente quella di far crescere l’odio e il rancore e con essi il peso politico di Hamas fra i palestinesi e nell’insieme del mondo arabo. L’operazione “Piombo Fuso” (altro rituale macabro al quale ci hanno abituato le nuove guerre) avrà come esito quello di rafforzare, in Israele come fra i palestinesi, le correnti più radicali che pensano alla pace come annichilimento dell’avversario. Hamas, che fino a dieci anni fa aveva un peso irrilevante nella società palestinese, è il prodotto di questa radicalizzazione ed insieme del cortocircuito politico di una leadership (quella dell’Autorità Nazionale Palestinese) che non ha saputo sottrarsi al rito novecentesco dello Stato nazionale. Il paradosso è che Israele ha bisogno di Hamas perché rappresenta l’avversario che serve a giustificare al mondo intero, più ancora che l’occupazione militare di Gaza, lo strisciante espansionismo in Cisgiordania. Senza dimenticare che prima del “piombo fuso” ci sono stati mesi e mesi di embargo che hanno ridotto la striscia di Gaza ad un immenso campo di concentramento, dove si moriva per mancanza di assistenza sanitaria, di servizi igienici e di acqua potabile. Un milione e mezzo di persone in pochi chilometri quadrati circondate da mura da dove non si può uscire. E’ la pace, questa?

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L’indignazione di queste ore non deve sopraffare la ragione. Perché è quel che i fondamentalismi di ogni parte vogliono. Che si crei cioè il muro contro muro, lo contro di civiltà e l’invocazione della guerra santa.
Per quanto difficile, è ora più che mai necessario far emergere i costruttori di pace. Ridare voce agli intellettuali e alla cultura laica di cui sono ricche entrambe le società ma che rischia di venir soffocata dal rumore dei blindati e dall’imbarbarimento di una politica sempre più avara di pensiero ed incapace di legittimarsi nel coraggio delle idee. Uscire dal labirinto richiede idee nuove e buona politica. A questo lavoreremo, in tutte le sedi.
Ma nell’immediato è necessario fermare le armi. Il mondo intero è chiamato ad un sussulto di civiltà, perché la tragedia della Palestina è quella di noi tutti.
Abbiamo in molti sperato che la vittoria di Barak Obama aprisse una pagina nuova dopo anni di buio. Ed ora il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America è chiamato a dimostrare per davvero che cambiare è possibile. Con l’intelligenza di chi, nei momenti cruciali, sa osare piuttosto che farsi influenzare da meschini calcoli elettorali.
Come hanno scritto nei giorni scorsi alcuni eminenti personaggi della cultura mondiale fra i quali Vaclav Havel, Desmond Tutu ed altri, in Terrasanta “è in gioco l’etica fondamentale del genere umano”. Se così è, se vogliamo che fra le parti si arrivi ad un accordo di pace duraturo che salvaguardi il diritto all’esistenza per i palestinesi e di sicurezza per Israele, occorre fermare le armi e dar vita ad un intervento di protezione internazionale da parte delle Nazioni Unite. Altrimenti davvero la Fertile crescent, la “Mezzaluna fertile” del Mediterraneo potrà solo essere una landa sterile e desolata.


*Michele Nardelli è consigliere provinciale del PD del Trentino

 

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