"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(15 dicembre 2010) Quella che ci ha proposto il presidente Lorenzo Dellai è una relazione stimolante. Forse - mi permetto di dire - qualche spanna sopra la stessa azione amministrativa della PAT. Non è un giudizio critico, è bene che in queste occasioni lo sguardo provi a guardare lontano. Sarebbe altrettanto positivo che la consapevolezza della necessità di avere questo sguardo lungo fosse di tutta la maggioranza, fosse della politica come dell'amministrazione. Perché solo così possiamo vincere questa partita, tutti insieme, capaci di essere all'altezza dei cambiamenti che questo tempo porta con sé.
Oltre allo sguardo lungo, ho spesso parlato della necessità di uno sguardo strabico. Occuparmi di cooperazione mi ha permesso in questi anni di provare ad avere questo strabismo, per dotarsi di quella distanza che ci permette di vedere questa nostra terra con una diversa profondità. Ragione per la quale consiglio ai miei colleghi di cercare di osservare il Trentino da fuori, possibilmente non da un villaggio turistico, ma dandosi una distanza per cogliere la profondità, comprendere i processi dell'interdipendenza che si riverberano in tempo reale sulla nostra terra, le trasformazioni che ne vengono.
Questo potrebbe aiutarci a prendere atto che gli strumenti di ieri non bastano più, sono diventati inservibili, che alle nuove consapevolezze devono corrispondere nuovi comportamenti. Così come occorrono nuovi occhiali, talvolta anche nuove parole per descrivere un mondo in continua trasformazione. "Mai più come prima" scrive il presidente e sono d'accordo.
Qualcuno in quest'aula ha affermato che la relazione di Dellai sarebbe la fotocopia di quella dell'anno passato. Vorrei provare ad evidenziare invece gli elementi di novità.
In primo luogo nell'analisi della crisi. Il tempo che viviamo non è l'onda lunga della crisi globale bensì la fine di un modello di sviluppo. Non dobbiamo aspettare una locomotiva che si porti via la crisi, ma prendere atto che tutto è cambiato. Questo significa che è necessario cambiare registro, a partire dalla consapevolezza del concetto di limite. E' infatti, ben prima della crisi, la limitatezza delle risorse a rendere obsoleto il modello keynesiano, quello che si fondava sull'equazione "più crescita, più consumi, più welfare". Un modello che si reggeva sull'esclusione di una parte del mondo. Ma oggi, quelli che un tempo erano considerati "paesi in via di sviluppo" sono le tigri del mondo, con tassi di crescita annui a due cifre: l'India, con il 21,3%; la Cina, con il 20,6%; il Brasile con il 19,7%.
Tutto questo per dire che oggi siamo nel "dopo sviluppo", nella cosiddetta "postmodernità". Tanto che il tema non è la contraddizione fra sviluppo e sottosviluppo, bensì il tema dell'esclusione che investe - in forma a-geografica - quote crescenti di popolazione. E la devastazione che viene dallo strapotere della finanza sull'economia. Basta parlare con un qualsiasi dirigente di banca per scoprire che i motivi della crisi finanziaria non sono stati minimamente scalfiti. Lo stesso ministro Tremonti ha dovuto prendere atto che gli strumenti finanziari derivati muovono una massa di denaro 12,5 volte il PIL mondiale: corrispondono a 300 trilioni di dollari, dove un trilione corrisponde ad un miliardo di miliardi (diciotto zero, per capirci), vere e proprie scommesse sull'andamento dei mercati. Un immenso casinò, un'economia virtuale che condiziona quella reale, che interagisce con le forme attraverso le quali si ripulisce il denaro. L'altra faccia dell'accaparramento delle risorse, dopo il petrolio, l'acqua e la terra.
Contesti nuovi, nei quali non è facile per la politica dare risposte efficaci. Un po' perché non attrezzata, un po' perché impotente. Per la prima volta anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama appare fragile, tanto che quando si è recato a Wall Street per chiedere regole sui derivati se ne è venuto via con le pive nel sacco.
Come attrezzarci? Come può un piccolo territorio come il nostro vincere una sfida tanto complessa? E arrivo qui al secondo motivo di novità nella relazione del presidente Dellai: una diversa declinazione del concetto di "crescita" associato al tema della sostenibilità.
Perché a questo corrisponde il tema della conoscenza. E' quel "meglio con meno" di cui si è molto parlato in questo dibattito e che nei mesi scorsi ho proposto come sfondo della finanziaria. Con meno, certo, perché l'acquisizione di nuove competenze autonomistiche fa sì che il nostro bilancio sia ridimensionato ben oltre i 50 milioni di euro in meno che le cifre indicano.
Non penso alla "decrescita", tema controverso, bensì alla necessità di promuovere una riconsiderazione dei consumi e degli stili di vita. Corrisponde ad uno scarto culturale. Basterebbe anche in questo caso far riferimento a quel che avviene, basterebbe saper leggere la cronaca, per comprendere come i nuovi confini della globalizzazione non lascino scampo a conservatorismi e ritualità. Non abbiamo a che fare solo con i fenomeni della delocalizzazione delle imprese in aree deregolate, ma i meccanismi ben più insidiosi della Bolkenstein. Del resto nei mesi scorsi, grazie si fa per dire all'Amministratore delegato della Fiat Marchionne, non si è parlato che di questo visto che proprio questo era l'oggetto della discussione attorno al referendum che ha interessato i lavoratori della Fiat di Pomigliano d'Arco.
La realtà ci racconta che per lo stesso lavoro, in Europa, c'è chi prende 200 euro e chi 2000. Come uscirne? Qualcuno propone di chiudersi, di innalzare barriere immaginando che i processi globali possano essere illusoriamente tenuti fuori. In realtà ne usciremo solo se sapremo farci carico di questo contesto nuovo, un approccio unitario, europeo, laddove chi oggi ha paghe da fame sia messo in condizioni di avere un reddito dignitoso e che chi ha di più rinunci a qualcosa. Ciò corrisponde ad un nuovo patto di cittadinanza europea, cosa oggi niente affatto scontata, avversata piuttosto.
Che dobbiamo ri-considerare i nostri stili di vita, ivi compresi diritti considerati consolidati, non ci piove. Qualcuno già lo sta facendo, magari senza volerlo. Sono i nostri giovani, che hanno messo in conto che una pensione non la riceveranno mai, a meno che non se la facciano privatamente. Nella precarizzazione le leggi di tutela già stanno saltando.
E' quel che emerge anche nel dibattito che si è aperto sul sito http://www.politicaresponsabile.it/ dove, negli interventi di molti giovani, la sfida della flessibilità viene posta senza paura, ponendo semplicemente la necessità di avere regole certe nelle relazioni di lavoro. Quel che invece viene considerato inaccettabile è il vuoto di fantasia, il pragmatismo inconcludente che blocca il cambiamento. Citando Dahrendorf quando affermava: "Il pragmatismo è conservatorismo sotto la veste dell'azione. Esso conserva l'esistente, nel mentre che dà l'impressione di movimento. Il massimo cambiamento prodotto dai pragmatici consiste nello scavare una buca per riempirne un'altra". La sfida della flessibilità deve essere raccolta. Così quella della fantasia. "Testa in aria, piedi a terra" scrive Catterina Seia nella prefazione di "Monte e Bellezza", libro di Ugo Morelli che vivamente vi consiglio.
La sfida che ci sta di fronte è in primo luogo culturale. E di questo devono essere consapevoli tutti, ogni segmento della nostra comunità ne deve essere consapevole, dalle maestre agli agricoltori, dall'operaio al dipendente della pubblica amministrazione. E' esattamente l'opposto del "non nel mio giardino", l'opposto della difesa con le unghie di quel che si ha, di quel "tutti contro tutti" di cui parlava Dellai nella sua relazione e che ritroviamo nella conflittualità spuria e confusa di chi si trova a difendere il suo lavoro dall'insidia del lavoro di altri a qualche migliaio di chilometri di distanza.
Meglio con meno significa anche investire sulla classe dirigente. Ed è proprio questo il terzo elemento di novità nella relazione del presidente, quando indicava l'insufficienza dei leaders, la necessità di una diffusa assunzione di responsabilità ad ogni livello. E qui arrivo ad un tema che mi sta particolarmente a cuore, quello dell'"apprendimento permanente". Se si vuole abitare il presente senza subirlo occorre conoscerlo, cogliere per tempo le trasformazioni, mettere a fuoco. Significa anche rimotivazione delle persone, nella pubblica amministrazione come nelle aziende private. Se in un ufficio di dieci persone ogni anno una di queste avesse la possibilità di un anno sabbatico dove rimettersi in gioco, acquisire sguardi sul mondo, darsi nuove motivazioni appunto, il carico di lavoro redistribuito sarebbe impercettibile ma quel che ne verrebbe sarebbe un salto di qualità individuale e collettivo. Va proprio in questa direzione uno degli emendamenti da me presentati sulla Legge 5/2006 per la piena attuazione degli articoli 68 e 69 dedicati proprio al tema dell'educazione permanente. Tema che peraltro va oltre l'istruzione e che motiva la predisposizione di una nuova proposta di legge che affronti questa tematica in maniera organica, affinché la sfida della flessibilità porti a condizioni di maggiore mobilità sociale, la concreta possibilità di un lavoratore edile di diventare un violinista.
Meglio con meno significa anche non avere uno sguardo statico sul presente, ragionare a mente aperta sulle vocazioni del Trentino, affrontare con intelligenza il tema della mobilità. Giustamente nella relazione del presidente si affianca la scommessa di Metroland con quella della banda larga. Per essere conseguenti occorre far discendere un impegno eccezionale di spesa come quello di una mobilità metropolitana che dovrebbe investire tutto il territorio trentino da una visione su come potrebbero cambiare gli attuali scenari grazie alla riforma istituzionale, al decentramento di poteri sulle Comunità di Valle, alla dislocazione eccentrica di funzioni tradizionalmente centrali e la straordinaria rivoluzione che potrebbe venire dal telelavoro. Che vuol dire farla finita con la logica del cartellino da timbrare (puntando sul serio sulla responsabilità del lavoro e non sul tradizionale schema gerarchico del capo che controlla), ma anche fare in modo che ogni giorno non gravitino sull'asta dell'Adige centomila automobili con quel che questo comporta in termini di inquinamento e di perdita di tempo. Difficile da stimare: non credo di andare tanto lontano dalla realtà nel ritenere che potremmo risparmiare o, meglio, liberare 40/50 mila ore al giorno. Appunto, fare meglio con meno.
Un altro aspetto che mi preme sottolineare in una prospettiva che valorizza la qualità sulla quantità è quello riconducibile al PIL quale strumento di valutazione della qualità del vivere. Proprio in questi giorni viene presentato a Roma l'VIII Rapporto Quars che misura la Qualità Regionale dello Sviluppo a partire da alcuni macro indicatori diversi da quelli tradizionali: ambiente, economia-lavoro, diritti e cittadinanza, istruzione e cultura, salute, pari opportunità, partecipazione. Bene. L'indice Quars del 2010 mette il Trentino Alto Adige al primo posto delle regioni italiane, seguita a distanza dall'Emilia Romagna, dalla Toscana, dalla Valle d'Aosta e dal Friuli Venezia Giulia. La nostra regione (ma i dati articolati confermano il primato anche basandosi sulle due province) è al primo posto per quanto riguarda l'ambiente, l'economia e il lavoro, la partecipazione, al terzo per diritti e cittadinanza, al settimo per le pari opportunità, al nono per la salute e al decimo per istruzione e cultura. Vuol dire che adottare altri parametri rispetto a quelli tradizionali è necessario per mettere in luce le eccellenze ma anche i ritardi sui quali dobbiamo intervenire (e in ogni caso i detrattori della nostra realtà, chi disegna il Trentino come in preda ai poteri forti e al malgoverno hanno materia per riflettere).
Un altro aspetto che posso solo sfiorare, ma che pure rappresenta un elemento di novità nella relazione del presidente (oltre ad una sottolineatura che apprezzo molto visto che per primo ho posto questa questione già due anni fa in una mozione proprio nella durante la discussione sulla finanziaria), è quello dell'attenzione verso la penetrazione del capitale criminale in Trentino. Qualche settimana fa era a Trento Giampaolo Visetti, inviato speciale di Repubblica in Cina. Il quadro che ci ha presentato di questo immenso paese è allarmante sotto diversi punti di vista. Fra questi il fatto che la Cina, attraverso la sua cooperazione in varie parti del mondo, sta comprando la Terra. Hanno già comprato gran parte dell'Africa, stanno facendo la stessa cosa in America Latina ed in altri continenti. Allora la domanda che pongo a tutti coloro che in questi giorni hanno gridato allo scandalo per il fatto che il Trentino abbia finanziato un programma di cooperazione in questo paese è la seguente: come può un territorio difendersi dalle dinamiche della post modernità?
Intanto conoscendole, cosa non secondaria. E poi interrogandosi come fa la relazione sugli strumenti anche di tipo fiscale o di trasparenza che possiamo mettere in campo per tutelare il territorio come la tracciabilità delle compravendite. Ma anche attraverso la cooperazione. La cooperazione che non deve ridursi all'aiuto umanitario o all'emergenza, nella consapevolezza che inclusione ed esclusione riguardano ogni territorio e soprattutto che la de regolazione o la destabilizzazione di un'area ci riguarda non solo in quanto persone sensibili ed attente alle cose del mondo, ma proprio in virtù di un'interdipendenza che non lascia fuori nessuno. La cooperazione, in questo quadro, deve diventare costruzione di relazioni, investimento sulla cultura, sulle classi dirigenti... appunto cooperazione di e fra comunità. Anche qui, meglio con meno.
Concetto che, per concludere, deve riguardare anche la politica. Nell'incertezza del presente, la politica deve essere capace di osservare, capire, proporre visioni. Perché solo così si può prendere per mano la paura, rendere concreto l'auspicio indicato da Dellai che l'autonomia sia antidoto alla solitudine. Saper leggere il tempo in cui viviamo, che richiede lo strabismo e la profondità che ne viene.
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