"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
(29 marzo 2011) «...Le forze della repressione sono impressionanti - dicono i giovani siriani - ma non abbiamo paura. Noi faremo come i nostri fratelli egiziani e tunisini. Ci fermeremo solo quando avremo abbattuto il regime». Questa è la rivoluzione dei gelsomini, giovane, democratica, laica, nonviolenta, priva di ogni simbolo novecentesco, che si trasmette via facebook e twitter. E' una primavera, non la notte dei kalashnikov o dei bombardamenti.
In Siria il regime di Bashar al-Asad, mentre promette riforme radicali, scatena la polizia contro i manifestanti. Ma i giovani scesi in piazza sono disarmati, hanno dalla loro la forza della ragione e della vita, che mettono in gioco per la dignità e la libertà. Il loro riferimento sono i fratelli egiziani e tunisini, non quello che accade in Libia. Che invece è tutta un'altra storia. E che getta un'ombra cupa sulla primavera araba.
In Libia si gioca una partita molto diversa, una guerra civile fra diverse fazioni che sino a ieri si sono riconosciute in Gheddafi e che oggi scelgono, armi in pugno, di rivendicare una diversa leadership. Ovviamente non significa che non vi siano anche istanze di libertà, ma se un tratto deve essere messo in rilievo è che ci troviamo di fronte al già visto, tutto interno al Novecento, nelle vecchie contese fra Tripolitania e Cirenaica ma soprattutto nel pensiero, la violenza come levatrice della storia. Al quale corrisponde un altro cliché conosciuto, quello della guerra. Dove domina l'ipocrisia. Perché quelli che oggi bombardano la Libia sono quegli stessi stati, l'Italia in primis, che con il rais di Tripoli hanno continuato a fare affari d'oro. O che cercano (è il caso della Francia) nuove aree d'influenza laddove la rivoluzione dei gelsomini le ha messe in discussione.
In questo passaggio di spazio e di tempo, è come se si confrontassero l'onda lunga del Novecento e gli incerti inizi di un secolo che impone un cambio di paradigma, lo "scontro di civiltà" e un inedito capitolo di storia in grado di andare oltre la marginalità e, per usare l'efficace espressione di Samir Kassir, l'infelicità araba.
"Che cosa dovevamo fare?"
Una domanda ricorrente, spesso lacerante. Rispetto le tante persone che in questi giorni si sono interrogate in modo aperto, dandosi risposte diverse. E non considero guerrafondaio chi in Parlamento - di fronte all'inazione degli organismi internazionali - ha votato per l'intervento armato. Sbagliato è l'approccio.
Come Forum trentino per la Pace e i Diritti umani abbiamo in questi mesi posto una forte attenzione ai temi della "Cittadinanza Euromediterranea". Ben prima che scoppiasse la primavera araba, abbiamo cercato i punti di contatto fra l'Europa e il Mediterraneo nelle culture e nella storia, un diverso racconto come risposta allo "scontro di civiltà". E non è affatto casuale che il Forum sia diventato in questi mesi un punto di riferimento per i nuovi trentini di origine araba, ansiosi che il moto di dignità potesse rappresentare una speranza anche personale di ritorno in paesi dalle grandi potenzialità economiche ma fino a quel punto segnati da regimi dispotici. Speranza che dovrebbe essere coltivata anche da chi proprio in questo momento decide di andarsene.
Anche sulla Libia abbiamo fatto sentire la nostra voce. Qui però il conflitto si è subito armato, non c'erano i sorrisi dei giovani ma lo sparare in aria e le tute mimetiche. Con un articolato documento consegnato nelle mani del Commissario del Governo abbiamo delineato una road map nella quale chiedevamo fra l'altro di congelare i beni e le azioni riconducibili al governo libico, di sospendere e rinegoziare il "Trattato di amicizia", di istituire una forza internazionale di pace sotto l'egida dell'Onu per la protezione dei civili, di aprire un corridoio umanitario a garanzia del diritto d'asilo, di mettere in campo azioni di cooperazione nella regione atte a sostenere sul piano economico il processo di transizione. E invece ancora una volta ci siamo trovati nel collo di bottiglia, schiacciati fra l'intervento armato e l'impotenza.
La cultura della pace è astrattezza?
E' questo imbuto che dovremmo evitare. Il fatto è che la politica tende ad occuparsi della pace solo quando scoppiano le controversie in maniera acuta. Qualcuno se ne occupa, per la verità, prima, durante e dopo. In Trentino ci siamo dati anche una legge (la n.11 del 1991) che ha istituito il Forum per la Pace e i Diritti Umani, nella convinzione che la pace rappresenti un tema troppo importante per lasciarlo all'improvvisazione. Si sono costruite scuole di formazione, istituti di ricerca e luoghi di osservazione permanente che si sono conquistati sul campo autorevolezza e ascolto. Il Trentino è diventato nel mondo un punto di riferimento per chi si occupa di educazione alla pace e di cooperazione internazionale. Se verrà approvata la nuova legge sui corpi civili di pace, avremo messo lì un altro importante tassello sul tema dell'interposizione nonviolenta, una realtà peraltro già all'opera, tanto efficace quanto lontana dai riflettori.
A chi professa il realismo della cultura di governo vorrei chiedere: non è forse questo un modo più efficace di prendersi le proprie responsabilità? Perché non si investe sulla pace, piuttosto che stanziare 16 miliardi di euro su sistemi di offesa come gli F35? Senza dimenticare che la cultura della prevenzione non impedisce peraltro di saperci far carico anche degli interventi nell'emergenza. E pure qui il Trentino fa scuola, non perché abbiamo le risorse dell'autonomia, ma grazie alla sensibilità di migliaia di volontari che si mettono in gioco nella totale gratuità.
Uscire dal Novecento
Non amo alcun genere di fondamentalismo. Ho lavorato in questi anni per fare uscire la pace dalle secche spesso autoreferenziali dei pacifismi. So bene che la realtà è fatta soprattutto di distinguo, di compromessi, anche di se e di ma...
Occorre uno scarto di pensiero, che collochi la cultura della pace come essenza della politica. Fin quando continueremo a pensare la guerra come l'estensione della politica con altri mezzi, non usciremo dal vecchio paradigma "si vis pacem, para bellum". Prigionieri di una storia, quella del Novecento, che la primavera dei gelsomini cerca di mettersi alle spalle.
(questo commento è uscito sul "Trentino" del 29 marzo 2011)
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