"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Andrea Rossini - (apparso su Balcani Cooperazione, 7 novembre 2008)
Incontro Michele Nardelli per un caffé nella čaršija di Sarajevo. Sta accompagnando un gruppo di insegnanti trentini in un viaggio di conoscenza attraverso i Balcani. Quando il discorso cade sullo stato della cooperazione internazionale nel Paese comincia a spazientirsi, e a dar voce a pensieri e riflessioni che ormai da anni va ripetendo nelle sedi più diverse. Ritrovo oggi quei ragionamenti espressi in forma compiuta finalmente in un libro, scritto a quattro mani con Mauro Cereghini.
È un libro che si colloca all'interno del dibattito aperto - soprattutto nel mondo anglosassone oltre che in Italia - sulla cooperazione internazionale, la cui qualità fondamentale consiste nel trasmettere un patrimonio critico di esperienze, maturato da chi ha osservato e lavorato in questo settore negli ultimi dieci, quindici anni. La sua origine, come sottolineano gli autori nell'introduzione, «viene dall'incontro dei nostri percorsi di vita avvenuto in quel laboratorio di idee e relazioni che è l'Osservatorio sui Balcani», di cui Michele è stato uno dei fondatori e Mauro direttore per diversi anni. Le nuove forme di solidarietà e relazione sperimentate dalla società civile italiana nei Balcani, a partire dai primi anni '90, trovano uno spazio particolare in questo libro che, insieme all'analisi della crisi della cooperazione allo sviluppo, propone possibili direttrici di trasformazione. «Cosa vuol dire cooperare, e per quale sviluppo? E poi, cooperare con chi, e perché?». È questo il nucleo attorno al quale si svolge il ragionamento degli autori. La fine del '900, le trasformazioni indotte dal tempo della globalizzazione e dell'interdipendenza, hanno reso inadeguata la cassetta degli attrezzi che la cooperazione utilizzava a partire dagli anni '60 e '70 del secolo scorso. La divisione tra sviluppo e sottosviluppo è anacronistica, non esistono più un Nord ricco e un Sud povero e bisognoso. L'esclusione non è confinata geograficamente, e attraversa le diverse società dall'interno: «I simboli della ricchezza e quelli della deriva, i palazzi di vetro e le baraccopoli, li troviamo ovunque: a New York come a Nairobi, a Mosca come a Città del Messico, a Mumbai come a Rio de Janeiro». Nuovi attori, come i migranti, trasferiscono alle proprie comunità più risorse - e in maniera più efficace - di quanto non siano in grado di fare le istituzioni internazionali, governative o non governative. Il ritmo delle trasformazioni è talmente rapido che Paesi un tempo definiti "sottosviluppati" sono in realtà divenuti "luoghi chiave della postmodernità", dove la deregolamentazione permette l'affermazione di modelli raffinati di economia finanziaria legati a dinamiche neofeudali, basate sul rigido controllo del territorio. L'analisi riparte dunque da quella sulle nuove guerre (Mary Kaldor, "Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale"), per approdare però a prospettive originali su sviluppo e sottosviluppo. Non esistono Paesi poveri, «ogni Paese infatti è ricco di storia, di cultura, di tradizioni, di saperi e di risorse naturali e umane». Se mai, esistono Paesi impoveriti dalla rottura di equilibri precedenti, «perché la povertà non è un flagello divino, né frutto del caso o della pigrizia degli uomini. È invece l'esito storico di processi materiali e culturali, di vicende politiche ed economiche». La profonda conoscenza dei contesti locali diviene quindi elemento imprescindibile per azioni che possano avere una qualche efficacia. Ma la cooperazione internazionale procede per lo più al contrario, sulla base di "tecniche" buone per qualsiasi contesto, applicate da professionisti che spesso non conoscono nulla delle società in cui si trovano ad operare. Il ragionamento di Cereghini e Nardelli si muove agile tra racconti di esperienze sul campo e parti analitiche. Da Pristina alla Selva Lacandona, il mondo della cooperazione di questi anni scorre sotto gli occhi del lettore. Incontri che «scivolano via sulla base di un linguaggio fatto di human rights, development, global issues, grassroot movements, electronic community e di tecnicismi rassicuranti (project management, logical framework, empowerment) lasciando la discussione politica fuori dalla porta». La narrazione diventa denuncia verso «quel sottile e odioso senso di superiorità che traspare dagli "internazionali" [...] quella condizione di potere verso i cosiddetti beneficiari, quasi fossero degli utili idioti». La critica coinvolge sia il lato governativo che quello non-governativo: «Una parte delle organizzazioni non governative (Ong) si è strutturata nel tempo come organizzazione permanente di medio-grandi dimensioni [...] che nel tempo diventano, come ogni organizzazione, corpi con vita e necessità proprie [...] Quando sopravvivere è il primo punto nell'agenda dell'organizzazione, quando la base sociale non è più un movimento popolare ma poche decine di tecnici divenuti cooperanti di mestiere, quando promuovere il proprio logo è più importante del cambiamento sociale da produrre, quando la competenza principale risulta saper scrivere un progetto e mantenere buoni rapporti con i finanziatori... allora è arrivata la crisi». Altrettanto stigmatizzata la logica dei "progettifici", «che impera tanto tra le Ong quanto nei ministeri e nelle agenzie ONU. Si formano grandi apparati dove la quantità dei progetti (e di bandi che si rincorrono) aumenta a scapito della qualità, con il crescente pericolo di far danni e di aggravare i problemi invece di risolverli. Emblematico vedere nelle riunioni di lavoro tante organizzazioni presentarsi snocciolando un banale elenco di progetti in corso. Non c'è un'identità da descrivere, un'idealità da trasmettere, un proprio modo di vedere il mondo. Ci sono solo tanti progetti [...] È il prevalere della dimensione tecnica su quella politica, dell'agire sul pensare». Dopo la diagnosi, gli elementi di proposta. Se infatti le forme attuali della cooperazione sono ormai insostenibili, questo non significa che ne siano esaurite le ragioni. Anzi. Nel tempo dell'interdipendenza, comunità diverse cercano sempre più di entrare in relazione, consapevoli di un "destino comune". In questo nuovo paradigma tuttavia, quello della cooperazione di comunità, sono due i soggetti (o le reti) che si mettono in gioco, restando sullo stesso piano. La cooperazione deve divenire infatti "relazione, cambiamento reciproco tra comunità e persone." Qui i cooperanti sono animatori del territorio, che facilitano un processo cui partecipano istituzioni locali, associazioni, gruppi informali e semplici cittadini. Il tempo non è naturalmente quello dell'emergenza, né quello rinchiuso all'interno dei cicli di progetto, ma è un tempo lungo, "il contrario dei programmi mordi e fuggi, della cooperazione senza radici." I viaggi e gli scambi, tra le due comunità in relazione, sono continui. Gli investimenti sono diretti alla «valorizzazione dell'unicità di ogni territorio [...] partendo dalle ricchezze specifiche del luogo, anziché introdurne di esogene, salvaguardando patrimoni e cultura delle comunità». Anche qui, insieme alla parte di analisi, ci sono esempi concreti che sostanziano il ragionamento. Relazioni avviate in questi anni tra comunità diverse, nate da un intreccio "fra scelte e casualità". Una parte rilevante viene dedicata all'esperienza personale degli autori, e in particolare alla relazione tra Trento e Prijedor, «dodici anni di impegno individuale e collettivo, che ha coinvolto e continua a coinvolgere nel profondo delle loro esistenze centinaia di persone». È un libro pieno di illuminazioni. La proposta, e la pratica, della cooperazione di comunità rappresentano un contributo fondamentale per superare forme e modelli di relazione non più sostenibili. Potranno sicuramente essere affinate, criticate e migliorate. L'importante è darsi il tempo.
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