«Se c’è ancora qualcuno là fuori che dubita del fatto che l’America
sia il posto dove tutto è possibile,
che ancora si chiede se il sogno dei nostri Padri sia vivo oggi,
che ancora si interroga sul potere della nostra democrazia,
stasera ecco la risposta. …
È la risposta data da giovani e vecchi, ricchi e poveri,
Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani,
gay, etero, disabili e non disabili...?»
Ora l’ipocrisia si spreca. Tutti rivendicano a sé il cambiamento, come se questo potesse avvenire a prescindere dai contenuti dei quali Barack Obama è portatore. Ma questo ci racconta della disonestà intellettuale di quanti in questi anni non hanno fatto altro che rincorrere i neoconservatori americani nelle tragiche avventure militari all’insegna dello “scontro di civiltà”, nell’unilateralismo che ha fatto a pezzi il diritto internazionale, nella religione del mercato che ha portato al delirio di una finanza internazionale diventata un grande casinò nel quale si scommette anche sull’andamento del prezzo del grano (ovvero sulle carestie) e che ha trascinato l’economia mondiale su una china rovinosa, nell’odiosa affermazione che il proprio sistema di vita non è negoziabile con l’esito di andarsi a prendere le risorse dove ci sono usando ogni mezzo ed ignorando che questo pianeta ha già superato da tempo il limite della sostenibilità.
Il 5 novembre il mondo si è svegliato diverso. Forse non ancora nel concreto della vita di milioni di persone alle prese con la sopravvivenza, forse non ancora per chi ha vissuto l’inizio di questo nuovo secolo fra scenari di guerra e cumuli di immondizie, forse non ancora per chi si è ritrovato senza i risparmi di una vita per effetto di una bolla finanziaria che prima o poi era destinata a scoppiare… Ma non v’è dubbio che dagli Stati Uniti oggi ci arriva un messaggio diverso, di cambiamento, ed il cambiamento non è solo nell’avvicendamento di un presidente, è in ciò che Obama rappresenta e nelle idee che hanno fatto da sfondo alla sua lunga campagna elettorale e che oggi, con il loro affermarsi, aprono una nuova speranza globale.
Il fatto che gli Stati Uniti abbiano eletto per la prima volta un presidente afroamericano è in sé un messaggio a tutto il pianeta. Quando in Europa ritornano i fantasmi del razzismo e si sdoganano gruppi di destra che parlano di Hitler e Mussolini come grandi statisti, l’elezione di un uomo il cui nonno era un pastore keniota, non può che infonderci speranza.
Ma il cambiamento rappresentato dalla elezione di Barack Obama è forse ancora piò significativo sul piano dei contenuti che segnano la fine di un’era e dell’incubo che ha portato con sé, quello della “guerra infinita”. Di quella logica che ha riempito il mondo di inquietudine e di paura, di inclusione ed esclusione, nella quale il nemico era ed è quello che ci insidia piò da vicino, che ha portato la gente a vivere con le unghie fuori, sostituendo l’aggressività al sorriso, considerando l’altro e la sua diversa identità in sottrazione piuttosto che in ascolto.
Un incubo dal quale l’Europa non sa ancora risvegliarsi. E così, di fronte ad un mondo sempre piò interdipendente, le paure diventano rancore, e il rancore progetto politico.
Anziché cavalcare quelle paure, tanto i fantasmi agitati strumentalmente da qualcuno per fini elettorali quanto l’inquietudine verso un futuro che appare incerto, la lezione che ci viene dagli Stati Uniti d’America ci indica un’altra strada, diversa da quella dell’illusorio chiuderci in una fortezza a difesa di quel che abbiamo, ma all’incontrario della necessità di aprirci avendo il coraggio di affrontare le questioni che oggi si pongono in ogni parte del pianeta che riguardano il futuro di tutti noi, a partire dalla semplice constatazione che siamo parte — per usare la bella espressione di Edgar Morin — di una comunità di destino terrestre.
Sono due visioni, a cui corrispondono due risposte diverse. Altro che tutti uguali. E’ quella stessa partita che si gioca domenica prossima in Trentino. Sapremo dimostrare la stessa capacità di apertura al dialogo e alla diversità?
Michele Nardelli