"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Questo articolo è stato pubblicato nell'ultimo numero della rivista UCT in questi giorni in edicola
di Michele Nardelli
(13 luglio 2011) Le immagini di quella brutale carezza che precede la mattanza rimarranno nella coscienza e nel dolore del ‘900. Sul set di Potočari, zona industriale di Srebrenica, il protagonista era lui, il generale Ratko Mladić. Lo sguardo fiero di chi ha in pugno la situazione, la sicurezza del gesto, il cameratismo, l'immancabile rakija, tutto secondo copione. Anche le comparse, perfette. Uomini smunti da mesi di assedio caricati sui camion con i loro zaini, donne con lo sguardo perso di chi ha un cattivo presentimento, i bambini per mano. E poi i caschi blu, ragazzini olandesi finiti più o meno per caso in quel buco del mondo di cui non sapevano nemmeno pronunciare il nome, alla mercé di guerrieri carichi di adrenalina e di alcol. Ma non era un film...
... anche se nella postmodernità, tutto o quasi veniva filmato. Era il riapparire del genocidio, nel cuore dell'Europa. Vennero portati con i camion nei centri vicini, i luoghi delle mattanze erano luoghi innocui nella loro normalità, capannoni industriali, fattorie, campi sportivi. La vita, tutt'intorno, scorreva pressoché normale, i bar pieni di gente e di fumo mentre fuori si svolgeva la mattanza. Morirono più di ottomila persone, con l'unica colpa di essere bosgnacchi, i musulmani della Bosnia Erzegovina.Era l'11 luglio 1995. Tutti noi ricordiamo dov'eravamo l'11 settembre 2001. Anche il tragico conto dei morti giocherebbe a favore di Srebrenica, ma di quel luglio del 1995 non c'è nella coscienza comune alcuna memoria. Dovremmo davvero chiederci il perché di tanta rimozione. Verso Srebrenica e verso una guerra che si svolgeva nell'indifferenza comune alle porte di casa nostra, durata un decennio.
E' difficile, certo, separare la figura di Mladić dal genocidio di Srebrenica. Ma l'arresto di un vecchio signore in un villaggio della Vojvodina ci offre - seppure per un solo istante - un'immagine diversa. Il potente generale, il cui mito ancora rimane impresso sulle nere magliette di troppi giovani serbi o sulle bottiglie di grappa, il ricercato numero uno dalla comunità internazionale, era in una anonima casa in un piccolo borgo della regione più improbabile della Serbia, solo e malandato.
Ricorda la caduta degli dei, ci parla della banalità del male e della guerra come normalità. Ci racconta che il male non veste i panni del mostro e che il mostro si annida nella normalità. I giornali belgradesi per qualche giorno hanno suffragato l'immagine umanizzata del padre che prima del suo trasferimento a L'Aja vuole portare un saluto sulla tomba della figlia morta suicida.
Per un solo istante, dicevo. Perché non appena Ratko Mladić, nato il 12 marzo 1943 in un villaggio nei pressi di Kalinovik (Bosnia Erzegovina), è uscito suo malgrado da un'esistenza anonima, immediatamente si è ricucito addosso i panni del generale che non solo non ha nulla di cui vergognarsi ma che rivendica apertamente tutto il suo operato. Il fatto è che tutto questo corrisponde ad una narrazione presente almeno in una parte, e non insignificante, della sua gente.
Ed è questo il nodo di fondo. Ratko Mladić verrà certamente condannato e pagherà i suoi crimini con il carcere, probabilmente a vita. Ma il Tribunale Penale Internazionale darà il suo verdetto sulla colpa criminale, non certo sulla colpa politica e morale di quanti vollero, assecondarono e videro senza alzare un dito per dire no. Una responsabilità che ricade dunque non su un solo uomo o sulle bande di criminali che la guerra l'hanno voluta, ma su tutti coloro che ancora oggi vivono dentro l'incubo della guerra, nelle narrazioni che parlano di guerre patriottiche e che nemmeno sono sfiorati dal dubbio del grande inganno perpetrato da quelle nomenclature che con grande disinvoltura indossarono le uniformi dei signori della guerra e poi quelle degli uomini d'affari.
La cattura di Mladić porta finalmente, dopo quindici anni di latitanza, un criminale sul banco degli imputati. Per le donne e gli uomini che hanno avuto i loro cari assassinati, che hanno conosciuto la violenza, il dolore e l'umiliazione dei campi di concentramento e dell'esilio, non è il risarcimento ma un fatto di giustizia. Ma non è la fine della guerra, che invece potrà dirsi conclusa solo quando si riconosceranno le responsabilità individuali e collettive che la tragedia jugoslava porta con sé. Non nelle aule dei tribunali, ma nella vita e nella coscienza delle persone. In quel paese che oggi non c'è più e in una comunità internazionale che prima non ha capito quel che stava per accadere, poi ha assecondato e legittimato i signori della guerra (compresa la vergogna di Srebrenica) e che ancora oggi descrive la "guerra dei dieci anni" come un conflitto etnico.
La guerra avrà fine se e quando vi sarà la capacità di costruire un percorso di riconciliazione che - dobbiamo riconoscerlo lucidamente ed amaramente - ancora non c'è stato. Non parlo del perdono, che investe una dimensione prevalentemente individuale. Penso alla riconciliazione come esito dell'elaborazione collettiva del conflitto, che non si affida al semplice trascorrere del tempo e nemmeno solo alla realizzazione di condizioni di rinascita economica. Perché il tempo non è galantuomo e la pancia piena non basta. Per mettere punto e a capo occorre la ricostruzione di una narrazione se non condivisa almeno con qualche punto d'incontro sul quale costruire un futuro comune.
Né la giustizia internazionale (che di questa dimensione della colpa non si occupa), né la cooperazione internazionale (ferma ad una materialità che affida allo sviluppo la panacea di ogni male), né il volontariato del buon cuore, sanno affrontare il tema decisivo della pace nella sua capacità di abitare i conflitti per farli evolvere in forma nonviolenta.
Ratko Mladić passerà il resto della sua vita in carcere. Il problema è di costruire un futuro che sappia fare i conti con i fantasmi che ancora s'aggirano fra quelle splendide vallate così cariche di storia e di rancore.
Michele Nardelli è presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani
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