"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
L'autonomia come prerogativa per abitare i processi globali. La crisi finanziaria, demografica, ecologica. La crisi della politica. La necessità di un cambio di approccio nel pensiero come nei comportamenti. Ritornare alla terra. La declinazione del concetto di sobrietà.
(14 dicembre 2011) Nel suo celebre romanzo "Per chi suona la campana" Ernst Hemingway cita i famosi versi di "Nessun uomo è un'isola" di John Donne. John Donne era un poeta e religioso inglese vissuto fra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, in tempi dunque piuttosto lontani dai nostri.
Nessun uomo è un'isola
Nessun uomo è un'isola,Se non lo è un uomo, figuriamoci se il Trentino è un'isola. Il Trentino è parte integrante dei processi nel quale è immerso, come parte di una comunità globale sempre più segnata dall'interdipendenza. Questo spiega - ed è naturale che sia così - perché il confronto sulla finanziaria della Provincia Autonoma di Trento assuma in questo contesto un profilo che va oltre in nostri piccoli confini. A testimonianza del fatto che oggi la dimensione sovranazionale e quella locale sono insieme decisive: per questo l'Europa è la nostra prospettiva politica.
E dovrebbe aiutarci a capire l'importanza di uno sguardo sul mondo. A che cosa servono le relazioni internazionali se non a questo? Lo dico a chi, in questa sede, si è chiesto a che cosa servono gli 11 milioni che investiamo nel capitolo sulla solidarietà internazionale. Anche se talvolta non ci riusciamo, perché piuttosto che "lo sguardo sul mondo" prevale la logica dell'aiuto per quanto importante...
Accanto a ciò ci dovrebbe aiutare a dotarci di una visione attenta verso gli effetti dell'interdipendenza sul nostro territorio. Non solo per i tagli, ma perché la crisi non conosce confini (ne abbiamo parlato pochi giorni fa nel confronto sul tema della presenza della criminalità organizzata in questa terra). E che ci deve far considerare l'autonomia come prerogativa, come strumento per abitare i processi globali, come occasione per costruire relazioni.
Costruire relazioni... Ad ottobre sono stato invitato a Casablanca a parlare della nostra autonomia, come spunto per affrontare la questione del Sahara Occidentale dilaniato da mezzo secolo di guerra. Di fronte ad un auditorio di oltre 200 persone - recentemente il Marocco ha introdotto l'autonomia nella sua nuova carta costituzionale - ho spiegato che l'autonomia non è un espediente per aggirare il problema, che l'autonomia (l'autogoverno) è più, non meno, dell'indipendenza (nel senso che si può avere l'indipendenza ma non l'autogoverno).
In questo quadro l'autonomia ci aiuta a stare al mondo, per conoscerci meglio e per comprendere lo straordinario valore di quel che abbiamo, che dobbiamo coltivare e studiare piuttosto che considerare una rendita di posizione o, peggio, una sorta di privilegio. E diventare cultura, una forma mentis, un approccio ai problemi.
All'inizio della sua relazione il presidente Dellai parla della crisi e dice "La crisi globale non è solo finanziaria ed economica. Si intreccia con un deficit complessivo di valori, di cultura, di politica, effetto di quel pensiero unico nel quale il successo senza condizioni e la forza senza limiti costituivano i riferimenti fondamentali".
Sono molto d'accordo. Abbiamo infatti a che fare con almeno tre aree di crisi, che dovremmo saper guardare come intrecciate fra loro.
1. La crisi finanziaria
Se ne parla molto, qualche volta vanvera. Tanto che ne abbiamo sottovalutato la natura, prima nell'incertezza di non averla saputa vedere per tempo, poi nell'averla letta come una crisi congiunturale, e non invece come la fine di un ciclo. Quel ciclo che ha prodotto la finanziarizzazione dell'economia, lo strapotere della finanza sull'economia, dell'economia di plastica sull'economia vera. E che ci affida un compito: quello di riportare la finanza alla sua funzione tradizionale. E' il tema che si sono posti gli indignados nel loro presidio simbolico di Wall Street, è lo stesso tema che si è posto e si pone Barack Obama ed è quello che ci poniamo quando facciamo appello ai soggetti della finanza trentina per far fronte al sostegno dell'economia del nostro territorio (e di cui parlo in uno degli ordini del giorno che mi vedono primo firmatario). Fin quando la dimensione finanziaria garantirà rendite notevolmente maggiori del profitto che può venire dal lavoro nessuno investirà sulle produzioni, sull'innovazione, sulla ricerca.
2. La crisi demografica
Una notizia è passata inosservata. Abbiamo raggiunto i 7 miliardi di esseri umani sul pianeta. E' nata Danica ed è paradossale che la disputa sia se il settemiliardesimo abitante della terra ha visto la luce a Manila o in un villaggio indiano e non ci si interroghi invece sulla prospettiva, visto che prima del 2030 saremo in 9 miliardi sul pianeta(soglia considerata il limite di sostenibilità agroalimentare). Ci vogliamo interrogare sul serio sulla sostenibilità? Sulla limitatezza delle risorse, sul fatto che si stanno compromettendo gli equilibri del pianeta, che stiamo tagliando la foresta amazzonica per produrre soia e carne? Vogliamo prendere atto che, a prescindere dalla crisi finanziaria, tutti dobbiamo fare un passo indietro? O pensiamo che ci siano al mondo persone che hanno fra loro diritti diversi?
3. La crisi ecologica
Perché non ci interroghiamo su come sta cambiando il clima? Non serve essere esperti, lo possiamo vedere, se lo vogliamo, nelle alluvioni della Liguria e della Sicilia. Il cambiamento del clima sulla Terra è vecchio quanto il pianeta: 4 miliardi e mezzo di anni, ma è nel XX secolo che si sono prodotti i cambiamenti ambientali più radicali ed è la prima volta che se ne ha la percezione nel corso della vita di una persona. Per rendersene conto basterebbe osservarli secondo il noto gioco di simulazione compiuto da un astronomo che ha provato a comprimere la storia del pianeta terra - 4 miliardi e mezzo di anni - sulla scala di un anno.
"Secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della via lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l'uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l'uomo di Neanderthal, nell'ultimo mezzo minuto si svolge l'intera storia umana conosciuta, nell'ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti".
C'è in realtà una quarta crisi, forse meno importante, ed è quella della politica. Il fatto che la politica ha smarrito la propria capacità di visione, la capacità di elaborare nuovi pensieri complessi dopo la fine delle ideologie novecentesche. La crisi della politica non è solo crisi della forma partito, è in primo luogo crisi di pensiero e di visione. Zygmunt Bauman a Trento, nella sua Conservazione sull'educazione e nel suo confronto con alcuni studenti del Da Vinci ammoniva - di fronte alla grande massa di informazioni - sulla necessità di mettere a fuoco gli avvenimenti. E' il tema della formazione e della promozione delle nuove classi dirigenti, che non è un problema di rottamazione generazionale ma di elaborazione della storia, del recente passato, e del nostro predisporsi a passare la mano.
La politica (e non solo la politica) continua invece a rincorrere gli avvenimenti, come si trattasse di emergenze. Lo abbiamo visto anche nel 2011 quando abbiamo guardato al Mediterraneo senza comprendere quel che stava avvenendo, quella primavera che vedeva come protagonisti giovani, colti, senza simboli del ‘900. Il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani che ho l'onore di presiedere ha seguito passo passo, accompagnando la primavera in un cambiamento del Mediterraneo che riguarda anche noi, che ha coinvolto anche noi, perché il Mediterraneo è anche la nostra storia.
Si guarda il dito, non la luna. Tanto che affrontiamo anche la crisi finanziaria come un'emergenza, quando invece occorrerebbe un cambio di approccio. In questo senso non c'entra Berlusconi (che ha altre responsabilità ...): se è crisi strutturale, non sarà certo una manovra da 30 miliardi (venti netti) a salvare l'Europa. So bene che il quadro parlamentare è quello di prima, ma mi sarei aspettato qualcosa di diverso dal Governo Monti, il taglio ai 16,5 miliardi dei cacciabombardieri F35 ad esempio, e più fantasia.
Occorre qualcosa di più profondo della manovra attuale, bisogna aggredire i nodi che portano alla crisi. Non è nemmeno solo la Tobin tax (quello 0,1% di tassa sulle transazioni finanziarie che porterebbe un'entrata di 166 miliardi di dollari) che pure va fatta.
E' necessario in primo luogo una grande alleanza dell'economia reale ed è questo il tratto sul quale voglio insistere in questo intervento. Un'alleanza che vorrei prendesse il nome di "Ritorno alla terra". S'intitola così l'ultimo libro di Vandana Shiva, la cui prefazione di Carlo Petrini, l'inventore di Terra Madre, insiste sull'economia della natura. E' quello di cui parla Giuseppe De Rita, presidente del Censis, laddove ci parla di cultura terranea. Ed è quello che ci ha lasciato come testamento politico Andrea Zanzotto, il grande poeta da poco scomparso, quando ammoniva la sua terra, il Veneto, da cui si staccava con fatica pur essendo chiamato in ogni parte del mondo, quando accusava la sua terra di aver annientato la propria tradizionale cultura contadina.
Qui non si tratta di tornare al passato, bensì di ripensare lo sviluppo e soprattutto di pensare alla ricerca e alla tecnologia come fonte di liberazione dall'assoggettamento dell'uomo alla cosa.
Dobbiamo finalmente far nostra la cultura del limite. Lo dico anche ricordando che nel 2012 saranno passi quarant'anni dal rapporto "I limiti dello sviluppo" del Club di Roma. Quegli scienziati vennero allora accusati di catastrofismo e oggi li dovremmo riconoscere nella loro lungimiranza.
Dobbiamo ristrutturare il pensiero e ripensare i comportamenti. Tutti oggi parlano di sobrietà. Vorrei provare a declinare questa parola tanto di moda per riportarla al suo vero significato. Parlo della limitatezza delle risorse e dei beni comuni, di biodiversità (pensiamo alla scomparsa delle colture autoctone, delle specie animali e vegetali...), degli stili di vita e consumi, di etica nella ricerca (fin dove ci si può spingere ...), di nuova declinazione dei diritti in un contesto globale, di impronta ecologica e impatto ambientale (penso al peso della CO2 nelle filiere lunghe), della natura dei confini e della conoscenza dell'altro, del conflitto generazionale, del limite come consapevolezza della finitezza delle nostre vite e infine della pace declinabile nella sobrietà (penso alla guerra del petrolio, dell'acqua, della terra).
In genere si associa la sobrietà alla povertà o alla miseria. Personalmente la voglio associare all'eleganza, allo stile e alla misura, alla bellezza. Una cultura, quella della sobrietà, che è peraltro connaturata a questa terra, tradizionalmente povera, che è stata di emigrazione. Una comunità tradizionalmente sobria e aperta, che ha nella sua storia tradizioni culturali importanti. Penso al diritto alla preghiera, ad esempio. Visto che si fa sempre riferimento alle tradizioni di questa terra, lo sapevate che nei primi anni del ‘900 durante l'impero austroungarico c'era a Trento una moschea con la quale si garantiva il diritto di culto ai soldati bosniaci di fede islamica?
Dobbiamo imparare a vivere in un contesto in cui ricominciamo a dare valore alle cose vere piuttosto che all'effimero, imparare a conoscere la storia (il secondo odg di cui sono primo firmatario sul polo archivistico), apprendere per conoscere, per il piacere di conoscere.
Ritornare alla terra, non vuol dire solo agricoltura che pure dobbiamo rimettere al centro della nostra economia, ma valorizzare le vocazioni del territorio. Molto è stato fatto, molto si deve fare. A cominciare dall'avere la consapevolezza del valore della nostra diversità che viene da tre aspetti:
Al tempo stesso, non possiamo permetterci di vivere di rendita. Ritorno alla terra significa avere a cuore le vocazioni del territorio (storia), la coesione sociale (fare sistema nei territori, cosa non facile e vero ostacolo alla valorizzazione delle filiere corte; ma anche rimotivazione delle persone nel loro lavoro, a cominciare dalla pubblica amministrazione), la conoscenza (investimento sul sapere e sull'innovazione): sono queste le tre parole chiave del "ritorno alla terra". Investono il lavoro, la difesa del reddito, la tutela del territorio, la riforma della pubblica amministrazione, le nuove cittadinanze (su questo aspetto ho voluto riprendere in un apposito ordine del giorno l'appello del presidente Giorgio Napolitano quando ha parlato di mettere fine all'ingiustizia di quei bambini e ragazzi figli di genitori stranieri che sono nati in Trentino - e in Italia - ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza).
L'anima di questa finanziaria? si chiedeva il consigliere Morandini. Rispondo con le parole di Massimo Cacciari: "Che cos'è fare politica se non dire al prossimo tuo che non è solo?".
Farlo con impegno, responsabilità, serietà, originalità di pensiero. Certo, c'è un quarto aspetto che ha contribuito a fare diverso il Trentino: se questa terra ha saputo essere diversa lo si deve anche alla sperimentazione politica che abbiamo saputo realizzare in questi anni. E che, personalmente, non considero un capitolo affatto chiuso.
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