"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Kosovo: tredici anni per sette chilometri

Moschea Sinan Pascià

di Mauro Cereghini *

(14 marzo 2012) Nel nostro Trentino sarebbe una scena normalissima. Studenti delle scuole medie di un paese, diciamo Civezzano, vengono con l'insegnante a Trento per inaugurare insieme ad un altro gruppo, poniamo di Mattarello, una mostra di elaborati fatti sullo stesso tema. Pochi chilometri in autobus, gli stessi che probabilmente fanno più volte alla settimana per trovarsi con gli amici, o per frequentare una delle tante attività del pomeriggio.

Venerdì scorso la stessa scena si è svolta a Peja/Pec, in Kosovo. Un gruppo di ragazzi del villaggio di Gorazdevac è venuto in città, e lo stesso hanno fatto altri dal quartiere periferico di Vitomirica. Hanno presentato assieme, nel Centro giovanile, disegni e cartelloni costruiti durante "Greenversations", un laboratorio sulla memoria del proprio territorio tenuto per alcuni mesi nelle rispettive scuole. Ma per fare quei sette chilometri di strada ci sono voluti tredici anni.

Gorazdevac è un villaggio di un migliaio di serbi, immerso insieme a poche altre isole in una regione abitata da centomila persone quasi tutte albanesi. Dall'estate del 1999, quando è terminata la guerra, all'estate del 2009 Gorazdevac è stato protetto militarmente dalle truppe Nato, con un check point all'ingresso ed uno all'uscita dell'unica strada che vi passava in mezzo. Dieci anni di vita reclusa nello spazio di due chilometri quadrati. E' l'eredità della guerra, dopo che i serbi hanno cacciato quasi metà della popolazione albanese distruggendone le case, e questa al suo rientro ha deciso di vendicarsi. Gorazdevac è l'unico villaggio che ha resistito, ma al prezzo di diventare un ghetto.

Si sono create così due realtà parallele. Peja/Pec, come tutto il Kossovo, lentamente e con contraddizioni si è rimessa in moto, e guarda al futuro specie dopo l'indipendenza dichiarata nel 2008 dalle autorità albanesi. Il villaggio invece si è fermato nel ricordo di ciò che era in passato, un pezzo di Serbia, e ha mantenuto la propria autonomia: sindaco, sanità, scuola... tutto risponde a Belgrado, e da lì riceve i finanziamenti. Perfino la moneta è il dinaro, invece dell'euro. All'inizio una chiusura per difesa, Gorazdevac viveva accerchiata e frequenti erano gli atti di intimidazione violenta. Poi col tempo anche per interesse, tutto sommato conviene ricevere stipendi più alti - come stabilito dalla Serbia - per restare a vivere nell'enclave. O attirare le ricche donazioni internazionali destinate alle minoranze.

A farne le spese le persone comuni, specie i giovani. Quelli che per istinto e curiosità vorrebbero sempre muoversi, e conoscere il mondo. Sono stati loro i primi a cercare di ristabilire i contatti con la città, nel dopoguerra. Ma poi è venuto quel 13 agosto del 2003, quando due di loro sono stati uccisi a fucilate mentre giocavano al fiume. Con la loro vita se n'è andato anche il sogno di un centro giovanile che riunisse albanesi, serbi e chiunque altro.

Soprattutto le istituzioni, come il sindaco e il direttore didattico, hanno sempre rifiutato qualsiasi contatto ufficiale con la città. Un misto di paura e interesse, ma comunque irremovibile. Anche quando, col tempo, la tensione è calata, i check point sono stati tolti e la gente ha ricominciato un po' a muoversi. Personalmente magari vanno anche in città a fare affari, ma in rappresentanza della scuola è sempre stato impossibile coinvolgerli. Perfino per un viaggio in Trentino che pure, per chi vive semi-rinchiuso, è più che desiderabile.

Ecco perché l'incontro di venerdì scorso non è stato un evento normale. Certo, non è nemmeno un fatto che cambierà da solo la vita delle due comunità. Però è un tassello, nel lento e difficile percorso verso almeno la coesistenza delle diversità, in una terra che come l'Europa intera è fondata sulle differenze. Per raggiungerlo, ci sono voluti diciotto mesi di impegno di una volontaria in servizio civile con la Provincia, affiancata da personale locale. Ma prima sette anni di presenza continuativa dell'Operazione Colomba, volontari che hanno vissuto fino al 2010 nel villaggio fianco a fianco con le persone. E prima ancora tutti i progetti e gli scambi delle associazioni raccolte nel Tavolo Trentino con il Kossovo, col supporto della Provincia e di vari donatori. Indietro fino all'intervento d'emergenza della Protezione civile a Kukes, nel lontano 1999. Tredici anni di passione e impegno, perché quegli studenti potessero fare sette chilometri.

E' uno sforzo rilevante in persone, in tempo, anche in denaro. L'alternativa però sarebbe lasciare i giovani kossovari crescere nei loro mondi paralleli. E preparare la prossima guerra, che costerebbe a tutta l'Europa infinitamente di più.

* Mauro Cereghini, Associazione Trentino con i Balcani

 

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