"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Il dialogo tra la natura e la cultura - o più esattamente: l'abbraccio della vegetazione che sgretola i palazzi e della sabbia che seppellisce i templi e gli anfiteatri - è tanto antico quanto la storia dell'uomo. Chi dice storia dice rovine e, ovviamente, meditazione di fronte alle rovine. Ciò che è stato detto meno è che le parole di questa meditazione, e la meditazione stessa, sono anch'esse storia e sono destinate a soffrire una sorte identica a quella degli edifici che ispirano lamenti e riflessioni: cadere e confondersi con la polvere.
E allo stesso modo: quasi sempre dimentichiamo che la natura, sebbene ci appaia eterna e inalterabile, nemmeno sfugge alla storia: l'universo ebbe un principio e avrà una fine. Che cosa sono gli astri e i pianeti, gli atomi e le loro particelle, se non fossili dello spazio-tempo dell'inizio? L'idea di una natura sempre identica a se stessa non è meno illusoria delle eternità dei metafisici.
Una poesia di Leopardi, La Ginestra (La Retama), mirabilmente tradotta da Unamuno [N.d.T: 1907], esprime con concentrata violenza, come se le sue strofe fossero lava raffreddata, il doppio e mortale movimento della natura e della storia: la prima divora la seconda solamente per, un istante dopo, divorare se stessa. Di fronte al Vesuvio e ai suoi poteri di annichilimento, la storia umana - e precisamente la più illustre tra tutte: l'antichità greco-romana - appare in tutta la sua inerme e irrisoria fragilità:
"E dal deserto foro / Diritto infra le file / Dei mozzi colonnati il peregrino / Lunge contempla il bipartito giogo / E la cresta fumante, / Che alla sparsa ruina ancor minaccia. / E nell'orror della secreta notte / Per li vacui teatri, / Per li templi deformi e per le rotte / Case, ove i parti il pipistrello asconde, / Come sinistra face / Che per vòti palagi atra s'aggiri, / Corre il baglior della funerea lava, / Che di lontan per l'ombre / Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. / Così, dell'uomo ignara e dell'etadi / Ch'ei chiama antiche, [...], / Sta natura ognor verde, anzi procede / Per sì lungo cammino / Che sembra star. Caggiono i regni intanto, / Passan genti e linguaggi: ella nol vede: / E l'uom d'eternità s'arroga il vanto";
["a través de las filas / de truncadas columnas / el peregrino desde el yermo foro / lejos contempla las gemelas cumbres / y la cresta humeante / que aún amenaza a la esparcida ruina. / Y en lo horror de la secreta noche, / por lo deformes templos, por lo circos vacíos / corre el fulgor de la funérea lava / che enrojece a las sombras a lo lejos / y tiñ los lugares del contorno. / así, ignara del hombre e de los siglos / que él llama antiguos..., / Naturaleza, verde siempre, marcha / por tan largo camino / que inmóvil nos parece. El tiempo imperios en su sueño ahoga, / gentes e idiomas pasan; no los ve ella / y el hombre eternidad vano se arroga"]
Il trionfo della natura - il suo simbolo è la ginestra che copre valli e piani della regione di Napoli - è anch'esso illusorio. Il cerchio e il suo perfetto girare, immagine dell'eterna perfezione che, attraverso il movimento, genera se stessa e così esprime l'identità dell'essere, sempre coincidendo con se stesso, è un'astrazione o, per meglio dire, una finzione. La natura, come tutto in questo mondo, dalle galassie ai sistemi solari agli uomini, ha un inizio e una fine:
Il Vesuvio
"E tu, lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni, / Anche tu presto alla crudel possanza / Soccomberai del sotterraneo foco, / Che ritornando al loco / Già noto, stenderà l'avaro lembo / Su tue molli foreste. E piegherai / Sotto il fascio mortal non renitente / Il tuo capo innocente";
[Y tú, lenta retama / que adornas estos campos desolados, / también tú pronto a la cruel potencia / sucumbirás del sotteraño fuego / que al lugar conocido retornando / dobres tus tiernas matas / su avaro borde extenderá. Rendida / al mortal peso, inclinarás entonces / tu inocente cabeza]
Linee splendide che uniscono alla misura e oggettività classica la melanconia romantica e che, per un lettore di poesia spagnola moderna, evocano immediatamente certi poemi di Cernuda (dovette aver letto Leopardi con la stessa attenzione con la quale lesse Unamuno). La conclusione della poesia è sorprendente. Nutrito di Lucrezio e degli stoici, Leopardi afferma, con una certa stravaganza, la superiorità morale della ginestra, cioè, della natura sugli uomini:
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1898)
"Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell'uom, quanto le frali / Tue stirpi non credesti / O dal fato o da te fatte immortali"
["Eres más sabia y sana / que el hombre, en quanto tú nunca has pensado / que inmortales tus tallos / se hayan hecho por ti o por el lado"]
Le espressioni di Leopardi sono più energiche e più nere di quelle di Unamuno: la ginestra non è "más sana" ma "meno inferma" dell'uomo. L'infermità umana è morale e consiste nella folle credenza nell'immortalità. Ma al di là della sua esagerazione romantica, il pessimismo del poeta italiano evoca preoccupazioni che sono famigliari agli uomini di questa fine di secolo: qual è il luogo della specie umana nella natura? Dall'apparizione dei primi organismi animali sulla terra, le cellule non fanno altro se non riprodursi e morire. In questo ciclo di duplicazione e estinzione, dice il biologo Jacob, consiste tutto il suo programma vitale. Ho detto: riprodursi e morire; avrei dovuto dire: morire per riprodursi. Però c'è un'eccezione: l'uomo. È l'unico animale che si ribella contro la morte. La sua ribellione si chiama cultura, storia: fare cose e pensare pensieri che gli sopravvivano. O la storia non è se non un'altra maniera di morire per riprodursi? Platone, Shakespeare e Newton servirono lo stesso padrone che, dal principio della vita servono le cellule, le amebe e gli infusori: la morte?
Trad it. di Octavio Paz, La Ginestra, in Id., Sombras de Obras. Arte y literatura [1983], Barcelona, Seix Barral, 1996, pp. 249-252
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