"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Ponti da ricostruire, appartenenze da tradire.

Gaza
di Michele Nardelli

(19 maggio 2012) Gaza, 1.645.500 abitanti in una piccola striscia di terra di 360 kmq, viene considerata la più grande prigione a cielo aperto del mondo. In questo inferno, dove la densità è di 4.587 abitanti per kmq (quella del Trentino con una superficie di 6.206 kmq è di 85 abitanti per kmq), nel gennaio 2009 si è consumato l'ennesimo capitolo di una guerra infinita, venti giorni di bombardamenti che portarono alla morte di più di mille palestinesi, molti dei quali donne e bambini.

In quei giorni Desmond Tutu e il compianto Václav Havel così scrivevano «... quello che è in gioco a Gaza è l'etica fondamentale del genere umano. ...  Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina».

Fu proprio a partire da queste parole che prese le mosse una delle prime mozioni approvate dal Consiglio Provinciale in questa legislatura della quale ero primo firmatario e che non casualmente era intitolata "Israele e Palestina. Ricostruire i ponti che la guerra abbatte".

Narrava di "guerre moderne" che non si accaniscono contro gli eserciti nemici, con i quali piuttosto si fanno affari, ma contro le popolazioni civili, la cultura, la storia, le dimensioni urbane simbolo di incontro e di cosmopolitismo. Nella mozione promettevamo di adoperarci non solo per superare l'emergenza, ma di riannodare i fili del dialogo, dando voce fra le parti ai costruttori di pace.

Il Trentino in relazione

Proprio questa mozione costituì la premessa che avrebbe dato vita, qualche mese più tardi, a "Officina Medio Oriente". Protagonisti i soggetti che nel corso degli anni hanno realizzato progetti di cooperazione, attività di solidarietà, relazioni di conoscenza, scambio ed amicizia. Aboud, Betlemme, Beit Jala, Gerusalemme, Haifa, Hebron, Jenin, Nazareth, Tulkarem, Gaza...: una fitta rete di esperienze che hanno permesso alla comunità trentina di crescere nella relazione e di mettere in campo esperienze di volontariato, cooperazione, programmi condivisi fra università e luoghi della ricerca, scambi fra gruppi culturali ed artistici, istituzioni. Verso la Palestina, ovvero verso lo stato di Israele e verso i territori governati dall'Autorità Nazionale Palestinese.

Elaborare i conflitti

Insistere sulle relazioni è risultato ed è decisivo. In primo luogo perché sono proprio le relazioni a rendere sostenibili una cooperazione che, per essere efficace, richiede conoscenza dei contesti. E poi perché è nella conoscenza e nello scambio di esperienze che si possono creare le condizioni per il superamento del pregiudizio e per la realizzazione di quei processi di elaborazione del conflitto che della pace sono il presupposto ineludibile. Proprio nell'elaborazione dei conflitti  si costruiscono le condizioni per uscire da quell'ossessione che invece immobilizza le parti nelle loro narrazioni, trasformandole in un vero e proprio incubo. Si tratta di un lavoro faticoso, fatto di ascolto e di riconoscimento del dolore, che rischia di essere cancellato tanto dagli atti unilaterali in spregio al diritto internazionale, quanto dalle guerre che lasciano una scia di morte, dolore e rancore.

Rumori sordi

Dobbiamo dirci senza infingimenti che oggi a prevalere non è la pace, non è l'abbassamento del conflitto, non sono il dialogo e tanto meno l'elaborazione del conflitto e di una storia condivisa. E' piuttosto il sopruso, nella costruzione del muro della vergogna o nel proseguire degli insediamenti israeliani nelle "zone C" assegnate all'Autorità Palestinese, ad avere il sopravvento. E' l'ostilità verso la primavera dei gelsomini, preferendo i regimi piuttosto che il cambiamento democratico nei paesi arabi. A far sentire il loro sordo rumore sono i motori dei cacciabombardieri israeliani, suggellati dall'accordo di "unità nazionale" fra il Likud e Kadima che - secondo la grande maggioranza degli osservatori internazionali - costituisce il preludio all'attacco contro l'Iran. E, come sempre accade quando si è sotto assedio, a guadagnarci saranno i fondamentalismi, di qualsiasi colore o religione essi siano.

Serve buona politica

Noi ci proviamo, certo, a dare voce al dialogo in tutte le sue forme, politica, culturale, religiosa... ma non possiamo non vedere l'addensarsi delle nubi di una nuova guerra, le cui proporzioni sarebbero incalcolabili non solo per quella Terra che le grandi religioni chiamano santa ma per tutto il Vicino Oriente. Per evitare un esito che avrebbe effetti devastanti sulla vita delle persone e nella radicalizzazione del conflitto, occorre mettere in moto la politica. Non la politica che si muove per calcolo elettorale, ma la buona politica che sa andare contro l'euforia delle chiamate alle armi, che sa osare nei territori dell'improbabile, che comincia a dire cose che possono anche risultare sgradite. E che prova a far emergere quel bisogno di pace che proprio i giovani di Gaza, prima ancora che la primavera araba prendesse corpo, esprimevano nel loro irriverente manifesto che iniziava mandando "affanculo" tutti i protagonisti, regionali ed internazionali, di un conflitto che è diventato funzionale alle parti in guerra.

Tradire

Quel che serve in questo momento è scartare di lato per trovare nuove strade rispetto a quelle sin qui seguite.  Non abbiamo bisogno di chiamare a raccolta le tifoserie, ma di testimoni scomodi della pace, di sguardi infedeli disposti a tradire la propria parte per affermare un corso nuovo. Consapevoli che le culture e i popoli danno il meglio di sé quando l'appartenenza identitaria s'incrina.

 

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