"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
dal blog "The Balcan Crew - Il caffé delle diaspore" lunedì 22 dicembre 2008
Vi ricordate tutti che io sono persa in amore per Matteo e per il suo blog Metapolis.
Bè, alcuni giorni fa Matteo è stato alla presentazione di un bellissimo libro : “Darsi il tempo” di Michele Nardelli e Mauro Cereghini.
- Lorenzo Dellai, Presidente Provincia autonoma di Trento
- Ugo Morelli, Docente Università Ca' Foscsari Venezia
- Mauro Cereghini, autore, Presidente Associazione Trentino con il Kossovo
- Michele Nardelli, autore, Consigliere Provincia autonoma di Trento
Luisa Chiodi, Direttrice Osservatorio Balcani e Caucaso ha introdotto la serata
AUTORI
Mauro Cereghini, attivista, ricercatore e formatore sui temi della pace, della nonviolenza, della mediazione e della cooperazione internazionale. Ha lavorato presso l’Università Internazionale per la Pace di Rovereto, è stato direttore dell’Osservatorio sui Balcani e della Cooperativa Unimondo. Attualmente collabora con la Fondazione Alexander Langer.
Michele Nardelli, lavora nella ricerca-azione sui temi della mondialità, della cooperazione internazionale e dell’elaborazione dei conflitti. All’impegno politico lungo i sentieri originali dell’agire locale e del pensare globale (è stato in Trentino fra i promotori del movimento politico Solidarietà) s’intrecciano le prime esperienze di cooperazione di comunità. Viaggiatore inquieto dell’Europa di mezzo, è fra i fondatori dell’Osservatorio sui Balcani.
Tutti questi nomi a voi non diranno granchè, ma per gli addetti al lavori la frase tipo: “direttore-fondatore di Osservatorio Balcani” significa molto, anzi moltissimo.
Per il mio particolare momento storico direi che significa ancora di più. La cooperazione di cui tanto si parla alle volte non funziona. Anzi, vi sono persone che vi lavorano contro.
... Ma tutto questo è passato. Oggi il mondo della cooperazione è in crisi e il concetto stesso di aiuto allo sviluppo appare superato. Crisi di senso, perché non si sa più verso quale sviluppo è realistico muoversi. E crisi di efficacia, perché spesso conta più la visibilità dei donatori che il risultato per i beneficiari. (tratto da Osservatorio Balcani).
Perciò credo che dobbiamo ringraziare questi due autori che parlano di una cooperazione diversa :
La fine del '900, le trasformazioni indotte dal tempo della globalizzazione e dell'interdipendenza, hanno reso inadeguata la cassetta degli attrezzi che la cooperazione utilizzava a partire dagli anni '60 e '70 del secolo scorso. La divisione tra sviluppo e sottosviluppo è anacronistica, non esistono più un Nord ricco e un Sud povero e bisognoso. L'esclusione non è confinata geograficamente, e attraversa le diverse società dall'interno: “I simboli della ricchezza e quelli della deriva, i palazzi di vetro e le baraccopoli, li troviamo ovunque: a New York come a Nairobi, a Mosca come a Città del Messico, a Mumbai come a Rio de Janeiro.” … Ma la cooperazione internazionale procede per lo più al contrario, sulla base di “tecniche” buone per qualsiasi contesto, applicate da professionisti che spesso non conoscono nulla delle società in cui si trovano ad operare.
Il ragionamento di Cereghini e Nardelli si muove agile tra racconti di esperienze sul campo e parti analitiche. Da Pristina alla Selva Lacandona, il mondo della cooperazione di questi anni scorre sotto gli occhi del lettore. Incontri che “scivolano via sulla base di un linguaggio fatto di human rights, development, global issues, grassroot movements, electronic community e di tecnicismi rassicuranti (project management, logical framework, empowerment) lasciando la discussione politica fuori dalla porta”. La narrazione diventa denuncia verso “quel sottile e odioso senso di superiorità che traspare dagli “internazionali” [...] quella condizione di potere verso i cosiddetti beneficiari, quasi fossero degli utili idioti.”
La critica coinvolge sia il lato governativo che quello non-governativo: “Una parte delle organizzazioni non governative (Ong) si è strutturata nel tempo come organizzazione permanente di medio-grandi dimensioni [...] che nel tempo diventano, come ogni organizzazione, corpi con vita e necessità proprie [...] Quando sopravvivere è il primo punto nell’agenda dell’organizzazione, quando la base sociale non è più un movimento popolare ma poche decine di tecnici divenuti cooperanti di mestiere, quando promuovere il proprio logo è più importante del cambiamento sociale da produrre, quando la competenza principale risulta saper scrivere un progetto e mantenere buoni rapporti con i finanziatori… allora è arrivata la crisi."
Altrettanto stigmatizzata la logica dei “progettifici”, “che impera tanto tra le Ong quanto nei ministeri e nelle agenzie ONU. Si formano grandi apparati dove la quantità dei progetti (e di bandi che si rincorrono) aumenta a scapito della qualità, con il crescente pericolo di far danni e di aggravare i problemi invece di risolverli. Emblematico vedere nelle riunioni di lavoro tante organizzazioni presentarsi snocciolando un banale elenco di progetti in corso. Non c’è un’identità da descrivere, un’idealità da trasmettere, un proprio modo di vedere il mondo. Ci sono solo tanti progetti [...] E’ il prevalere della dimensione tecnica su quella politica, dell’agire sul pensare.”
…Qui i cooperanti sono animatori del territorio, che facilitano un processo cui partecipano istituzioni locali, associazioni, gruppi informali e semplici cittadini. Il tempo non è naturalmente quello dell'emergenza, né quello rinchiuso all'interno dei cicli di progetto, ma è un tempo lungo, “il contrario dei programmi mordi e fuggi, della cooperazione senza radici.” I viaggi e gli scambi, tra le due comunità in relazione, sono continui. Gli investimenti sono diretti alla “valorizzazione dell’unicità di ogni territorio [...] partendo dalle ricchezze specifiche del luogo, anziché introdurne di esogene, salvaguardando patrimoni e cultura delle comunità.”
Anche qui, insieme alla parte di analisi, ci sono esempi concreti che sostanziano il ragionamento. Relazioni avviate in questi anni tra comunità diverse, nate da un intreccio “fra scelte e casualità”. Una parte rilevante viene dedicata all'esperienza personale degli autori, e in particolare alla relazione tra Trento e Prijedor, “dodici anni di impegno individuale e collettivo, che ha coinvolto e continua a coinvolgere nel profondo delle loro esistenze centinaia di persone.” (tratto dalla recensione di Andrea Rossini)
Di Michele Nardelli mi è piaciuta una frase. E' stata detta in occasione dell'arresto del sindaco di Prijedor accusato di strage.
"Stakic è un criminale di guerra ed è giusto che paghi. C'è da augurarsi che questa condanna possa diventare oggetto di riflessione collettiva. Se invece sarà un capro espiatorio, se la comunità locale non troverà le forme per parlare e ragionare su quanto è accaduto, il carcere di una persona non servirà a mettere alle spalle per davvero gli orrori di Prijedor e della Bosnia."
Ha ragione al 100%! La guerra non è finita, i sopravvissuti non ragionano sull'accaduto, prendono le fosse comuni come capro espiatorio e gli orrori non sono stati messi alle spalle, anzi, se continua così ne vedremo sicuramente altri molto presto.
Tengo a precisare una cosa. Ho fatto questo post focalizzando l'attenzione sul significato che questo libro trasmette, ovvero un'idea di pace e di cooperazione. Tutto il resto, ovvero le mie idee politiche sui balkani, le idee politiche degli autori del libro e tutto ciò che non riguarda espressamente la cultura, le tradizioni, la musica, la vita popolare, la religione e tutto ciò che può, anche pur minimamente essere di ostacolo alla pace, non verrà trattato qui né nei post, ne'nei commenti.
Per fortuna nostra vi sono una marea di blog che parlano di tutto ciò e i loro team passano le giornate a cancellare insulti e minacce.
Non è a questo che miriamo noi. Su questo blog sono beneaccetti tuti i vostri commenti purchè in tema con lo spirito del blog.
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