"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Un progetto politico di nome Europa

di Michele Nardelli

Ma davvero noi elettori stiamo per eleggere il nuovo Parlamento Europeo? Sarà, perché di tutto si parla in questa campagna elettorale, tranne che di Europa. Il che riflette il grado di affezione verso il progetto europeo oggi ridotto ai minimi termini. In Italia come altrove. Eppure la parabola dell'Irlanda dovrebbe pur insegnarci qualcosa sul valore dell'Europa e della moneta unica. Nei salotti televisivi e nei media proprio l'Europa è la grande assente. Ecco perché vorrei porre qualche domanda sull'Europa.

Di quale Europa stiamo parlando?

L'Europa che ancora prevale nell'immaginario collettivo è quella a 15 stati, ovvero l'Europa occidentale. Più questa si è allargata, più è cresciuto l'euroscetticismo. La speranza che risiedeva nella demolizione del muro della guerra fredda si è progressivamente infranta contro le paure, gli egoismi, gli effetti deregolativi verso il mercato del lavoro, fino a giungere al paradosso che sono proprio i nuovi arrivati nell'Unione ad esprimere il massimo di chiusura verso nuovi allargamenti. Così l'Europa è ancora un'incompiuta. Lo è perché arriviamo alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo senza una vera Costituzione europea e con un Trattato non ancora ratificato dall'insieme dei suoi membri. E lo è perché l'Europa è a diverse dimensioni: una cosa è infatti l'Unione Europea (a 27 stati), altro è il Consiglio d'Europa (a 47). Nonostante quest'ultima rappresenti la più antica forma di associazione dei paesi europei, qualcuno pensa che l'Azerbaijan o l'Armenia siano parte della famiglia europea?

Chi era Europa?

Nella mitologia Europa era una principessa, figlia di Agenore, re di Tiro in Fenicia (l'attuale Libano). Ci racconta del suo rapimento, di una vana ricerca e di una vacca che cade sfinita. E' la bella metafora di un'Europa che nasce "fuori di sé". Altre storie narrano di un'Europa che non si scopre, ma di una missione, qualcosa da costruire, un lavoro che non finisce mai, che trae origine nella civiltà mediterranea. Degli europei che, a dispetto dei popoli stanziali, erano nomadi. Di un'identità europea che interiorizza la differenza, allergica alle frontiere, ad ogni fissità e finitezza. Che cosa è rimasto di questa Europa, nella fortezza che respinge i disperati al loro destino?

Un'identità europea?

Si è molto parlato negli anni scorsi delle radici culturali europee. Nell'aspro confronto sul Trattato il mancato riferimento alla cultura giudaico cristiana dell'Europa ha suscitato proteste, si è agitato lo "scontro di civiltà", si è evocata la Battaglia di Lepanto (1571), ancora una volta l'uso strumentale della storia e di quella frattura ancora non elaborata, se è vero che la proposta di allargamento dell'Unione alla Turchia suscita ancora profonde divisioni. Dimentichi che la Turchia fa parte del Consiglio d'Europa sin dal 1949. Che l'Europa - come ama dire Romano Prodi - è un insieme di minoranze, ognuna delle quali prodotto di quell'attraversamento che lungo la storia hanno fatto lo spazio comune europeo. E dimentichi di un islam endogeno che non abbiamo voluto vedere nemmeno quando - negli anni '90 - qualcuno ha tentato di annientarlo. Forse per questo abbiamo assistito nel silenzio all'assedio della Gerusalemme dei Balcani. Per dire che l'identità europea alberga nella sua pluralità.

Sappiamo guardare all'Europa?

Per dieci anni il cuore dell'Europa ci ha inviato messaggi ascrivibili alla modernità senza che noi sapessimo farne tesoro. La caduta del muro rappresentava una straordinaria opportunità per abbattere confini materiali ed immateriali. E' accaduto il contrario. Prima ignorando la richiesta del presidente di turno della Jugoslavia Ante Marković di integrare il suo paese nell'Unione Europea (cosa che avrebbe probabilmente evitato il successivo bagno di sangue). Non abbiamo saputo vedere una delocalizzazione delle imprese che metteva al lavoro ferri vecchi in nome della deregolazione, come oggi ci stupiamo del fenomeno sempre più diffuso degli accordi per il distacco di lavoratori, aziende che qui usano la cassa integrazione per aprire contemporaneamente in Romania o altrove, facendo venire i lavoratori in Italia con un contratto di lavoro relativo ai paesi d'origine. Abbiamo rimosso la tragedia del Caucaso meridionale, passaggio di corridoi e gasdotti, pure fortemente connessa al riscaldamento delle nostre abitazioni. Così sfugge all'attenzione la nascita in Europa di paesi offshore come la Transnistria, stato fantasma al centro dei traffici criminali di armi ed esseri umani.

C'è una politica europea?

Tutto questo richiederebbe un forte indirizzo politico europeo, un governo verso il quale cedere quote significative di sovranità a fronte di una progressiva estensione delle conquiste di civiltà giuridica, sociale ed ambientale e di una crescente assunzione di responsabilità attraverso l'autogoverno dei  territori, il tutto nella cornice dell'Europa delle regioni. Il fatto è che l'Europa sembra procedere a ritroso, azzoppata dal convergere di egoismi e paure che si traducono sul piano politico nelle forme più diverse di euroscetticismo. Ciò nonostante l'Europa, quella tanto criticata della moneta comune e delle regole burocratiche, che ci ha messi almeno parzialmente al riparo delle turbolenze di un mercato finanziario impazzito, rimane la vera prospettiva politica, uno spazio post nazionale in grado di fornire una cornice alle grandi questioni del nostro tempo. In primis il tema delle migrazioni, che va affrontato nell'ambito di politiche economiche e sociali comuni ma anche d'area. Pensiamo, ad esempio, alle aspettative che il programma di Barcellona aveva aperto fra i paesi delle diverse sponde del Mediterraneo.

Domande intorno alle quali la politica appare in ritardo o distratta dall'ossessione verso un premier che in molti avvertiamo come impresentabile ma che riflette un degrado e uno spaesamento sociale sempre più preoccupante. Nelle corde del Partito Democratico ci sono le visioni e le sensibilità per rimettere al centro della sua campagna elettorale i temi dell'Europa, allargando il proprio orizzonte programmatico in questa prospettiva ed al tempo stesso focalizzando l'attenzione sulla dimensione regionale e territoriale. Uno strabismo necessario a connettere il locale ed il globale e viceversa.

Nei dieci giorni che ci mancano dal voto europeo ma anche oltre quella scadenza, come visione in grado di farci abitare i processi reali senza l'affanno del rincorrere gli avvenimenti.

 

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