"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Su 'Stil Novo' di Matteo Renzi

la copertina
Matteo Renzi
 
Stil Novo
 
Rizzoli, 2016
 
 

di Claudio Giunta *

Stil novo. La rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter è un libro così complesso e sfaccettato che si fa fatica a credere che Matteo Renzi abbia potuto scriverlo tutto da solo, senza neanche un aiuto, qualcuno da ringraziare. Eppure è così: persino la scherzosa cronologia fiorentina che chiude il libro, dal 59 a.C. (nascita di Firenze) al 2012 (cinquecentenario della morte di Vespucci), sembra essere farina del suo sacco. 

(...)

Renzi è un politico, non un uomo di pensiero. Perciò, tutta l'intelligenza degli uomini del passato si presenta ai suoi occhi sottoforma di cose: la cupola di Santa Maria del Fiore, la flotta di Vespucci, il David di Michelangelo. E lo stupore, l'ammirazione che è giusto nutrire di fronte a queste cose si traduce non - per ipotesi - nell'esortazione a coltivare silenziosamente lo studio che ha prodotto quelle opere, bensì in un impulso ad agire. Il pensiero va bene, ma quella che conta davvero è l'azione.

Ne deriva che chi riflette, chi indugia, chi ritarda l'azione con obiezioni dettate dalla prudenza, chi semplicemente difende lo stato di cose esistente è, ipso facto, l'Avversario: «c'è chi deve dire di no a prescindere perché bisogna difendere la malinconia dello status quo». L'Avversario, come si sa, ha tanti nomi. C'è il Burocrate con le sue scartoffie; c'è l'Alto Dirigentone Romano (testuale), col suo mega-stipendio; c'è il Politico, che fa l'interesse del suo partito e non quello del paese; ma ci sono soprattutto i loro omologhi nel campo della cultura, e cioè gli Specialisti («certe cose si devono tacere, altrimenti gli specialisti si arrabbiano»), i «Custodi dell'ortodossia», i «Sacerdoti delle soprintendenze» e, soprattutto, i «Professoroni». Ora, mentre il mondo per il quale Renzi si batte è un mondo a colori, aperto alla curiosità, alla ricerca e alla sorpresa (i tre termini sono, di fatto, intercambiabili, perché alonati dello stesso senso di novità: vedi l'impressionante pagina 85), questi baluardi del Vecchio, questi settari al soldo delle élites (sempre l'incredibile pagina 85) si aggirano con «le loro cravatte d'ordinanza» in un mondo grigio, malinconico, soporifero: «Dimenticano, lorsignori, che fosse stato per loro il genio sarebbe stato sempre tarpato» (sempre la vertiginosa pagina 85).

Questo livore nei confronti degli Avversari rispecchia una piega del carattere di Renzi, della sua Weltanschauung diciamo, ma reagisce anche a vicende recenti, come la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo dietro gli affreschi del Salone dei Cinquecento o la proposta di costruire finalmente una facciata alla chiesa di San Lorenzo: «si indice un nuovo concorso tra gli architetti contemporanei più tosti». In queste e altre circostanze, Renzi si è «scontrato con la chiusura degli addetti ai lavori» (in prima fila, e per lungo tratto da solo, Tomaso Montanari), e questo per il triste motivo che «in Italia, e a Firenze in particolar modo, le volontà dei sindaci non sono progetti. Sono più o meno suggerimenti, banali idee da sottoporre a scrupoloso vaglio della burocrazia». Scandaloso, non è vero?

Ma sarebbe un errore limitarsi a sorridere, perché il tema è serio. Alla radice di un simile atteggiamento sta infatti una generale insofferenza nei confronti della categoria della mediazione e dei mediatori. La fiducia di Renzi - ribadita durante tutte le assemblee alla Stazione Leopolda - nelle virtù di Facebook, uno strumento che sembra abolire la mediazione (sembra soltanto: perché il formato, la gabbia di Facebook è, in se stessa, una mediazione, e delle più rigide), è perfettamente coerente con i sarcasmi sui politici di professione (benché Renzi sia ovviamente uno di loro) e sui professori della «pubblica istruzione» che dissolvono la magia di Dante nella loro noia e s'indignano quando qualcuno propone di smettere di contemplare l'arte del passato e, finalmente, di cominciare a usarla. È sempre la stessa riluttanza ad ammettere il ruolo dei mediatori, una riluttanza che, lungi dal poter essere etichettata come ‘di destra' o ‘di sinistra', individua uno dei punti di massima convergenza tra la sensibilità di una parte della sinistra e la sensibilità di una parte della destra.

L'interventismo culturale di Renzi si associa, nelle pagine di Stilnovo, a una visione politica anch'essa dinamica, fattiva, ma dalla quale è bandita ogni idea di conflitto o, se è per questo, ogni idea di complessità. Le opinioni che Renzi difende sono quelle su cui chiunque esprimerebbe un accordo di massima durante una conversazione in spiaggia, al taglio dell'anguria. Ma certo, c'è una burocrazia terrificante, bisognerebbe snellire tutte le procedure. Ma certo, bisognerebbe licenziare i professori fannulloni e premiare quelli bravi. Ma certo, tutti devono avere le stesse possibilità, poi però è chiaro che il chirurgo bravo opera, e l'incapace no. La conversazione agostana s'incarta di solito sul come. Come fare? Qualsiasi persona seria trema di fronte a questa domanda. Come evitare, infatti, che la soppressione della burocrazia dia via libera all'arbitrio? (Ovvero: come evitare che Matteo Renzi, laureato in Scienze Politiche, uno che pensa che la battaglia di Gavinana abbia avuto luogo nel quartiere di Firenze che porta quel nome [p. 184], decida di cambiare la facciata di San Lorenzo?) Chi stabilisce chi sono i professori da licenziare? Quelli che non piacciono agli studenti? Quelli che non piacciono ai genitori? Oppure queste cose ‘si sanno'?

Renzi non trema. Ha un'illimitata fiducia in sé, nei fiorentini e negli esseri umani: in quest'ordine. A giudicare da Stil novo, questa fiducia si fonda soprattutto sulle parole d'ordine dell'infantilismo corrente - Emozioni, Sogni, Eventi - e su slogan farlocchi come (poteva mancare?) Stay hungry, stay foolish. Ora, non c'è niente di male negli ‘eventi' (feste, spettacoli, raduni, flash-mob), e di solito non c'è niente di male neanche nella cultura. Ma quanto alla commistione tra le due, ho qualche resistenza motivata non, credo, da misoneismo, o da quell'inflessibilità moralistica che è tipica dei laureati in Lettere (‘non confondere il sacro della Cultura con il profano dell'Intrattenimento') ma da un desiderio di onestà e di rispetto per il significato delle parole. Il termine cultura, e derivati, viene adoperato spesso a sproposito per dignificare cose (eventi, appunto) che con la cultura hanno poco che fare, e più precisamente hanno poco che fare con quell'habitus che l'acculturazione presuppone: applicazione, fatica, studio, per lo più silenziosi, per lo più solitari (qui torna in campo il laureato in Lettere, ma direi con buone ragioni). Non è un danno poi così grave, si dirà, questo equivoco onomastico. Ma l'ipocrisia e la retorica sono sempre un danno. Ed è un danno anche destinare a ‘eventi culturali' che durano qualche ora o qualche giorno e non lasciano traccia denaro che potrebbe essere speso più utilmente nell'istruzione. C'è al fondo l'idea, diffusa specialmente a sinistra, del comune-impresario, o dello stato-impresario al quale si chiede - oltre che di pensare al welfare - anche un ventaglio di opportunità per passare il proprio tempo libero, evidentemente nella convinzione che il divertimento, o l'intrattenimento culturale sia parte del welfare. Ma non lo è. E allo stato e agli enti locali compete soprattutto l'ordinaria amministrazione di musei, biblioteche, teatri, sale da concerto, scuole; al di fuori di quest'ambito già molto ampio, gli interventi devono essere limitati, per la buona ragione che sono limitate le risorse ad essi destinabili.

«La vera distinzione per il futuro dell'Italia - scrive Renzi - è quella tra coraggiosi e vili». La mia opinione è invece che la vera distinzione - anche questa trasversale e prepolitica, proprio come quella tra coraggiosi e vili - sia tra adulti e bambini: intendendo per adulti quelle persone che meditano su quello che dicono e scrivono, diffidano della società dello spettacolo e dei suoi cascami (gli eventi, la Commedia di Dante «proclamata» [sic] nelle piazze), delegano a persone competenti, rifiutano di credere che esista un mondo di buoni da una parte (se stessi e i propri amici) e, dall'altra, un mondo di reazionari con la desinenza in -one. E intendendo per bambini quelle persone che hanno un'opinione su tutto, non ascoltano quelle degli altri e si affidano a scorciatoie demenziali come «la distinzione tra coraggiosi e vili».

Ciò detto sulle idee che contiene, va solo aggiunto che anche il linguaggio di Stil novo è il linguaggio medio della conversazione da spiaggia, con quel tono da ‘si fa pe' scherza', quella toscanità caricaturale che anche nei comici veri, come Benigni, suona spesso imbarazzante (un encomio agli sceneggiatori di Boris, che hanno saputo fermare l'attimo: «... perché con quella c aspirata e quel senso dell'umorismo da quattro soldi, i toscani hanno devastato questo paese»). Non si finirebbe più di citare, ma ecco per esempio che «Dante era uno ganzo» (e non il parruccone che ci hanno descritto a scuola, facendocelo odiare); ecco, in dittico con Dante, l'arzillo «Ginettaccio Bartali» e il suo «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare»; ecco il detto popolare sempre calzante: «Senza lilleri non si lallera»; ecco la definizione spiccia, antilibresca: «Ma Cellini era uno sparaballe mica da ridere»; ecco, vera perla da bar, lo Stato personificato: «Bene. Io, Stato, ti vengo incontro». Prevedibilmente, Il rovescio di questo registro basso-colloquiale è il sublime, o il sublime andato storto, cioè il kitsch: «Firenze è anche questo. Un insieme di attimi che si fanno eternità».

Stil novo contiene i pensieri di un italiano come tanti, articolati nel modo in cui tanti li articolerebbero, e non ci sarebbe niente di male, in questa media sociologica, se Matteo Renzi non aspirasse a dirigere il maggiore partito italiano e, coll'occasione, l'Italia. Se l'impresa gli riuscirà, si realizzerà questo interessante paradosso: andrà al governo, sotto le insegne di un partito di sinistra, un uomo che - come la tradizione della sinistra vuole - fa della cultura uno dei pilastri del suo programma politico, ma che, per le cose che scrive e per il modo in cui le scrive, non sembra avere alcuna dimestichezza coi libri, né con ciò che i libri insegnano veramente. Ben scavato, vecchia talpa.

* Università di Trento

 

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