"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

L'identità del futuro

Verso il futuro
Ciclo di incontri "Storie di immigrazione. Appunti di cittadinanza". Le autonomie europee alla sfida dell'immigrazione. Quali diritti-doveri per i nuovi cittadini glocali?

di Piergiorgio Cattani

(21 settembre 2012) Il Trentino come lo vediamo adesso si fonda su due pilastri: uno, politico-istituzionale, rappresentato dall'autonomia speciale; l'altro, che potremmo definire socio-economico, basato principalmente su di una struttura solidaristica e inclusiva che trova nel movimento cooperativo una originale concretizzazione.

Più che cercare le radici identitarie nella storia del Principato vescovile, che pure conserva vestigia degne di nota, occorre valorizzare questi presupposti culturali: la cura del territorio, il senso del lavoro, la capacità di mettersi insieme per il progresso della comunità. Il sostanziale buon governo austroungarico, con un Trentino per certi versi già proiettato in una dimensione europea, ha poi lasciato infrastrutture materiali e immateriali (dalle strade al Catasto all'istruzione obbligatoria fino ai 14 anni) sconosciute a molte altre zone d'Italia e che poi, dopo la seconda guerra mondiale, sono state riformate garantendo un decennale sviluppo.

La situazione odierna, in cui la globalizzazione e le dinamiche europee (delineate dai precedenti interventi) modificano la composizione sociale anche di terre riposte come il Trentino, ci chiama a problemi di ardua soluzione, connessi alla sostenibilità del nostro benessere e al perdurare del nostro modello sociale. Il passato non può essere semplicemente contemplato o conservato, ma reinterpretato con originalità. Sono due le principali domande che necessitano di una risposta il più possibile condivisa: quale sarà il modello sociale trentino del futuro? Riuscirà la nostra autonomia a produrre ricchezza?

È evidente che il fenomeno migratorio intercetta ambedue le questioni e si trova al crocevia delle scelte decisive che ci aspettano. I dati di fatto ci parlano di un Trentino che, a differenza delle regioni limitrofe, non solo è già multietnico, ma che è riuscito a realizzare almeno in parte un'integrazione non solo di parole. Una tradizione cattolica aperta, ossigenata dagli scambi con i missionari, ha sostenuto una strategia inclusiva, condivisa dalla maggioranza della popolazione e quindi della dirigenza politica. Fantasmi xenofobi sono però sempre in agguato. Il tema del futuro sarà l'integrazione dei nuovi trentini nel lavoro e nella produzione di reddito, offrendo non solo manovalanza per quei mestieri che gli autoctoni non fanno più, ma anche inventiva, cultura, energia, voglia di miglioramento.

Alcuni dati economici

La crisi economica ha colpito pesantemente anche la manodopera straniera, compresi i lavoratori stagionali di cui fino a ieri gli immigrati, anche solo per alcuni mesi, erano la stragrande maggioranza. Ecco alcuni dati. Secondo il Servizio lavoro della Provincia di Trento, rispetto allo stesso periodo del 2011, i cittadini extracomunitari impiegati nell'agricoltura sono calati del 25%, nel turismo estivo l'oscillazione è invece del -21,8%. Anche per la vendemmia e la raccolta delle mele i lavoratori non comunitari diminuiscono dell'11%.

I lavoratori in arrivo dai Paesi extraeuropei sono in diminuzione. Attualmente le richieste elaborate dal Servizio lavoro di Piazza Dante sono 1.800. Quanto alle nazionalità della forza lavoro in arrivo, il primato resta all'Est Europa, in particolare Moldavia, Serbia, Albania. In picchiata, invece, gli operai africani.

Si potrebbe dedurne che il mercato del lavoro è già saturo per gli stranieri e che quindi non è possibile un ulteriore flusso migratorio. Se guardiamo con attenzione non è così, anzi la presenza straniera è un fattore di crescita economica. Guardando al nord-est, secondo una ricerca dell'aprile scorso contenuta nel Rapporto Annuale sull'Economia dell'Immigrazione[1] realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e patrocinato dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e dal Ministero degli Affari Esteri, si possono fare altre valutazioni.

Gli stranieri rappresentano una risorsa per il territorio del NordEst: le quasi 100mila imprese condotte da stranieri producono il 6,4% del Pil del territorio.

Gli stranieri dunque lavorano, pagano le tasse, ma restano gravemente a rischio di povertà relativa e assoluta. Infatti un dipendente straniero che lavora nel NordEst guadagna al mese una cifra netta di poco superiore ai 1.000€, 255€ in meno rispetto ai colleghi italiani.

Di Irpef gli stranieri pagano a testa tra i 2.330 € dell'Emilia Romagna a 2.970 € del Friuli Venezia Giulia.

Il 42,2% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà contro il 12,6% delle famiglie italiane. Il reddito percepito permette di risparmiare una cifra molto bassa che supera di poco i 600 euro annui. Le entrate provengono per l'84,3% da lavoro dipendente e di queste oltre un quarto viene destinato al pagamento dell'affitto, dal momento che appena il 13,8% delle famiglie è proprietaria dell'abitazione di residenza.

Sempre la Fondazione Moressa[2] ha presentato a fine agosto un altro studio focalizzandosi sulle cosiddette imprese straniere. Di nuovo alcune cifre.

Il 7,4% delle imprese in Italia è gestito da immigrati. Aziende straniere in crescita di 26mila unità a fronte di un calo di oltre 28mila imprese italiane.

Su 6milioni di imprese operanti in Italia nel 2011, 454mila sono condotte da stranieri, cioè il 7,4% del totale. Nonostante la crisi, le imprese straniere hanno registrato a fine anno un saldo positivo di oltre 26mila unità, al contrario delle aziende italiane che sono, invece, diminuite di oltre 28mila imprese. Le imprese straniere dunque aumentano del 5,9% mentre quelle italiane diminuiscono a livello nazionale del 0,5%. Più di 156mila aziende straniere (34,4% del totale) si concentrano nel settore del commercio, cui fa seguito quello delle costruzioni con quasi 125mila (27,5%) e quello dei servizi con più di 89mila unità produttive (19,7%). Con più di 85mila imprese è la Lombardia la regione che presenta il maggior numero di aziende condotte da stranieri (18,9% del totale), seguita dal Lazio (11,2%) e dalla Toscana (10%). In Trentino Alto Adige le aziende gestite da stranieri sono 6482, il 5,9% del totale di cui il 91,8% gestite in maniera esclusiva da stranieri (dato inferiore rispetto alla media italiana).

Quando avviano un'attività imprenditoriale, gli stranieri preferiscono costituirla insieme a connazionali (oppure avviando direttamente imprese individuali per conto proprio) piuttosto che mettersi in società con italiani.

Alcuni problemi connessi all'integrazione "economica"

Due punti da sottolineare: il rischio di povertà e la propensione degli stranieri a non far nascere imprese insieme con gli italiani. Ambedue questi versanti rimandano allo stesso problema, cioè l'integrazione. In Trentino possiamo fare molto proprio su questo aspetto. Sarebbe bello conoscere i dati sulle cooperative del Trentino sviluppate da stranieri esclusivamente e quelle costituite in maniera mista da trentini e migranti.

Qui mi ricollego al discorso di Stefano Fait e, in particolare, di Lorenzo Piccoli sottolineando come sia decisiva la percezione con cui si guardano gli immigrati, in genere visti almeno da noi come un fattore di instabilità sociale, di insicurezza pubblica, insomma come una palla al piede per la comunità. In effetti non possiamo nascondere aree di degrado e di disagio in cui gli stranieri, magari irregolari o disoccupati o sfruttati, vivono in condizioni inaccettabili che fomentano violenza e criminalità. Certamente in Italia e neppure in Trentino non siamo come in Scozia o in Canada dove la figura dell'immigrato è quella dell'imprenditore di origini orientali capace di creare ricchezza e lavoro.

È in questo campo però che si gioca la sfida. Proprio ora, nel pieno della crisi economica, su tali questioni si decide buona parte del futuro nelle società multietniche. Credo addirittura che, senza sottovalutare il tema dell'identità così ben delineato negli interventi precedenti, il modo in cui si affronterà e si uscirà dalla recessione influenzerà nel lungo periodo i problemi che stiamo trattando. Si è detto giustamente che la crisi ha riportato al centro la concretezza, il lavoro, il potere d'acquisto dei salari, l'economia reale: ed è su questi versanti che va posta l'attenzione della politica. Anche in Trentino.

Qui non abbiamo i delicati problemi etnici dell'Alto Adige e la società è sicuramente più omogenea e meno conflittuale. Al di là dei limitati episodi di guerriglia urbana che hanno interessato quest'estate alcuni gruppi di migranti, si può dire che il Trentino è un modello di integrazione, raggiunto anche grazie ai cospicui investimenti pubblici in materia. Investimenti in campo socio-assistenziale, sanitario, informativo e appunto culturale sia diretti esclusivamente agli stranieri sia volti alla conoscenza e alla crescita reciproca.

Ora tuttavia occorre un passo in più. Nei prossimi anni il Trentino subirà grandi trasformazioni. Se l'autonomia in quanto tale non verrà probabilmente messa in discussione, il suo corredo finanziario si contrarrà fino a perdere il 25% delle risorse attuali. La partita con il governo nazionale è ancora aperta e sul tavolo c'è la concreta possibilità di ottenere maggiori competenze, a fronte di un bilancio provinciale meno pingue rispetto al passato. Il presidente Dellai ha dichiarato di voler puntare a prendere in mano come Provincia la gestione dell'Agenzia delle Entrate e degli ammortizzatori sociali: due ambiti economico finanziari di peso, segno di una giusta attenzione a questi temi. Ancora Dellai ha detto che la terza fase dell'autonomia deve poggiarsi sul fondamento della "tranquillità economica". Un traguardo difficile specie di questi tempi; un concetto suggestivo che meriterebbe grandi approfondimenti che non possiamo fare in questa sede.

Problemi e sfide per il Trentino

In conclusione mi limiterò ad evidenziare alcuni temi del rapporto tra immigrati e politica economica qui in Trentino.

Abbiamo ricordato all'inizio come la nostra provincia abbia realizzato positivi interventi nell'ambito dell'integrazione degli stranieri; la sfida della società multietnica è stata accettata praticamente da tutte le sensibilità culturali in campo, anche dall'autonomismo più spinto; le frange estreme, sempre presenti, sono marginalizzate; azioni violente o criminali, compiute dai nuovi arrivati, sono circoscritte e represse in maniera adeguata; la comunità nel suo insieme è abituata alla stabile presenza di migranti che migranti non sono più in quanto appartengono al tessuto più vivo del Trentino; non si contano le attività formative dei ragazzi stranieri, gli incentivi per gli studenti universitari, i corsi di lingua per gli adulti e così via.

Non mancano ovviamente le criticità da cui non sono esenti in particolare valli e paesi di periferia in cui spesso l'immigrato, magari insieme alla sua famiglia, vive in condizione di marginalità senza contatti con la comunità circostante, che pure quasi sempre non gli è ostile: se poi perde il lavoro rischia di cadere in una spirale di emarginazione e degrado difficilmente risolvibile. Ancora una volta è il lavoro, la condizione economica, a fare la differenza; per questo la crisi potrebbe mettere a serio repentaglio il nostro modello di convivenza.

Ci sono poi problemi strutturali che sono legati alla condizione stessa dell'emigrazione. Sono pochi coloro che giungono da noi con la precisa intenzione di restare qui. C'è sempre l'idea di ritornare a casa, determinata dalla prospettiva di miglioramento della propria condizione di vita che significa benessere economico, istruzione per i figli, magari accesso alle cure sanitarie. È chiaro che l'investimento pubblico diventa molto dispendioso ma povero di risultati concreti se, a metà del percorso, lo straniero se ne va: così accade nelle scuole quando il grande impegno profuso da insegnanti, famiglie e compagni per l'integrazione di un bambino o di un ragazzo straniero si disperde nel caso in cui scelga di tornare in patria. Questa intrinseca provvisorietà è un elemento che non si può cancellare e che deve essere sempre tenuto in considerazione nelle scelte politiche.

Guardando ai grandi numeri però ci sì accorge che la maggior parte dei migranti, per un motivo o per l'altro, mettono radici qui e vogliono diventare trentini. Il dibattito sul futuro dell'Autonomia deve tener conto di questo scenario. Ci sono i nuovi trentini. Essi provengono in parte dalle altre regioni d'Italia, in parte dall'estero. In ambedue i casi essi non possono essere indottrinati alla presunta identità trentina, ma devono sentirsi parte della riscrittura condivisa del progetto per il Trentino del futuro.

Come ho cercato di sostenere in questo intervento oggi più di ieri la frontiera dell'integrazione riguarda l'economia e il lavoro. Spesso il Trentino è bloccato dal massiccio intervento pubblico che sicuramente tampona le crisi più gravi, ma che alla fine disincentiva lo slancio imprenditoriale del singolo. Gli stranieri sono abituati a rischiare di più in prima persona. A volte leggiamo di commercianti trentini preoccupati per la "concorrenza sleale" dei negozi gestiti da immigrati: pur nel doveroso rispetto delle regole di tutti, sarebbe invece necessario sostenere questa imprenditorialità diffusa, facendo sì che non diventi esclusiva degli stranieri ma che sia sempre di più "mista". Operazione difficile, di lungo periodo.

La fotografia del lavoro degli immigrati risente molto della crisi in atto, anche perché la permanenza regolare degli stranieri nel Paese è legata inscindibilmente dal contratto di lavoro. In attesa di una modifica della normativa a livello nazionale, il problema rimane quello della "integrazione nel mercato del lavoro" che, a mio parere, può avvenire secondo due direttrici: una socio-culturale, una prettamente economica.

Il discorso sui diritti e doveri dei nuovi arrivati, che in realtà vanno di pari passo con nuovi tipi di diritto e di dovere che interessano pure gli autoctoni, si intreccia con la loro effettiva condizione di vita. A volte, e lo dico soprattutto a chi come noi fa un discorso "teorico", quando si parla di migrazioni si rischia di rimanere nel vago, di fare sociologia astratta oppure di entrare in discorsi politici riguardanti l'identità, il rapporto con le culture, il sogno di un mondo interdipendente e pacificato. È evidente che a monte di ogni riflessione e azione concreta ci deve essere il presupposto di un  determinato pensiero sugli stranieri, che non può essere quello della chiusura e della xenofobia. Detto questo, occorre calibrare in profondità anche le analisi sociali e culturali, chiedendoci sempre qual è la vita concreta dei nuovi arrivati e come il benessere collettivo interessi l'insieme della comunità.

Dal punto di vista economico, e così concludo, occorre sfatare alcuni luoghi comuni: lo straniero porta via lavoro quando è lui che subisce maggiormente la crisi; gli incentivi pubblici vanno agli immigrati invece che ai trentini, quando invece la crescita complessiva fa anche il nostro bene; i migranti fanno i lavori meno qualificati, cosa non vera, sia perché ormai anche gli italiani li fanno sia perché giungono da noi persone competenti e motivate. Si tratta di far incontrare ambienti per ora non del tutto comunicanti. Così si costruisce l'identità del futuro.

[1]http://www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/2012/04/stranieri-a-nordest-un-valore-economico-per-la-societa/

[2]http://www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/wp-content/uploads/2012/08/Comunicato-stampa-Imprese-condotte-da-stranieri.pdf

 

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