«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani». "Manifesto di Ventotene"
di Michele Nardelli
(4 novembre 2012) Martedì 6 novembre sarà il giorno più lungo. L'attesa non riguarda solo il futuro degli Stati Uniti d'America, investe il mondo intero. Chi vincerà le presidenziali americane avrà una responsabilità enorme in un passaggio cruciale: una crisi strutturale che ha reso "normale" il dominio della finanza sull'economia, l'uscita dall'Afghanistan dopo dieci anni di guerra e nessuna "pace duratura", gli effetti sempre più visibili dei cambiamenti climatici che un modello di sviluppo insostenibile produce, un Medio Oriente in oscillazione fra una primavera che fatica a consolidarsi e nuove guerre che incombono...
Che tutto questo ed altro ancora si giochi per una manciata di voti fra la Florida e l'Ohio, appare davvero inquietante. Mentre scrivo e a seggi elettorali già aperti i sondaggi dicono parità, 48 a 48, e dunque la differenza la faranno proprio gli stati più popolosi che esprimono il maggior numero di grandi elettori.
Quattro anni di amministrazione Obama non sono stati privi di criticità, certo, ma ciò nonostante si avverte un baratro rispetto a quel che potrebbe accadere qualora Romney dovesse sovvertire i pronostici che ancora danno Obama in vantaggio nei due stati chiave. Non è fuori dal mondo ipotizzare che Barack Obama, qualora vincesse la partita, possa rompere gli indugi e provare a lasciare il segno in una sfida culturale e politica che sappiamo non facile in una società tendenzialmente conservatrice come quella nordamericana. Ma questo richiederebbe che i democratici sapessero riprendere quel percorso che Robert Kennedy aveva immaginato nel suo celebre discorso sul PIL prima di venir assassinato.
E' poi interessante annotare che, mentre negli Stati Uniti si svolge questa battaglia all'ultimo voto, dall'altra parte del globo due giorni dopo (esattamente l'8 novembre) inizierà un'altra partita non meno importante. A Pechino prende il via il 18° Congresso del Partito Comunista Cinese. Duemila delegati saranno chiamati ad esprimersi sul rapporto del segretario generale Hu Jintao, ad eleggere il nuovo Comitato Centrale e il Politburo, discuteranno dello statuto e del programma del partito. Oltre alla forma, la sostanza: nel cambio generazionale la partita si gioca uno scontro senza esclusione di colpi e, fatto inedito, che giunge fino alla luce del sole attraverso una questione morale che non sembra conoscere confini.
Giocata in questo caso anche e soprattutto per le dinamiche interne al partito-stato, fra gli esponenti della Cricca di Shangai e l'area politica che fa capo a Hu Jintao espressione degli esponenti cresciuti nelle fila giovanili del partito. Più difficile in questo caso decifrare le posizioni politiche. Si sa ad esempio che della corrente Jintao fanno parte anche il "Gruppo di Tsinghua", esponenti laureatisi alla rinomata Università di Tsinghua (il più famoso ateneo statale), ma di quali pensieri siano portatori è difficile dire. Sarà interessante vedere come la cosiddetta "Quinta Generazione" della classe dirigente cinese orienterà l'operato del nuovo Politburo.
In questa partita parallela giocata a distanza fra e nelle due grandi superpotenze costrette dal realismo politico a sostenersi vicendevolmente (considerato che la Cina controlla una fetta considerevole del debito pubblico statunitense), si faticano ad intravvedere nuovi paradigmi. E' come se, nel momento della più forte accelerazione dei processi di cambiamento, la politica fosse inchiodata al Novecento.
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