"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

175 ettari. Il passato che non passa

Auschwitz

di Michele Nardelli

Un perimetro, quello tracciato ieri con una linea bianca di gesso lungo le vie della città di Trento, per aiutarci a riflettere. Racchiude centosettantacinque ettari, uno spazio immenso come quello che ad Auschwitz occupava l'industria della morte che inghiottì milioni di persone.

Grazie ad una suggestiva idea di Valentina Miorandi, all'impegno dell'ANPI e di numerose associazioni, centinaia di persone hanno provato ieri a scuotere l'immaginario collettivo, laddove la memoria dell'olocausto rischia di essere relegata alle celebrazioni di un giorno.

Quella linea bianca che attraversa la città, i suoi quartieri e le sue strade, forse aiuterà tante altre persone ad interrogarsi sul come sia stato possibile, su dove può arrivare la ferocia dell'uomo, sul come tutto questo sia avvenuto anche attraverso il consenso di moltitudini inneggianti l'odio razziale, sulla banalità del male e sulla responsabilità di chi girò lo sguardo altrove.

Una linea bianca che da piazza Fiera arriva a piazza Venezia, al Castello del Buonconsiglio, al quartiere di san Martino e da lì verso Cristo Re, Lung'Adige Leopardi e giù fino ad oltre il Muse, via Monte Baldo, via Vittorio Veneto, per giungere a Corso 3 Novembre, via S.Croce e ritornare lì dove eravamo partiti due ore e mezzo prima: quello spazio occupava la fabbrica della morte.

Che non casualmente aveva al suo ingresso la scritta "Arbeit mach frei", perché ad Auschwitz  e negli altri luoghi concentrazionari del Novecento la modernità ha prodotto uno dei suoi frutti più avvelenati: la pianificazione dello sterminio di chi rappresentava il diverso. Zingari o ebrei, omosessuali o malati mentali, oppositori o partigiani, anarchici o comunisti... in quella linea non c'era solo la follia del nazifascismo, c'era qualcosa di più profondo che se non viene elaborato è destinato a riapparire.

Mentre percorro quei sette chilometri di perimetro c'è una domanda che attraversa i miei pensieri: quanto abbiamo saputo elaborare di questa e di analoghe tragedie del Novecento? Perché qui sta il nodo da sciogliere: in assenza di elaborazione collettiva, il passato non passa.    

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da stefano fait il 29 gennaio 2013 09:22
    Certo che c'era qualcosa di più profondo, come hanno abbondantemente documentato Richard L. Rubenstein, nel suo esemplare “The Cunning of History. The Holocaust and the American Future” (1975) e Zygmunt Bauman in “Modernità e Olocausto”.
    La loro tesi è che Auschwitz non sia un episodio eccezionale, un’aberrazione, ma si inserisca, come suo culmine, in una tradizione di schiavismo e di eliminazione dell’umanità giudicata superflua che è sempre esistita. È il culmine di una tendenza globale, transculturale, duratura, fatta di dominio burocratico, nazionalismo, sfruttamento del lavoro forzato in nome dell’avidità e del profitto e smaltimento dell’eccesso di risorse umane. Prima era soprattutto un fenomeno che riguardava il Terzo Mondo, dove si sono consumati diversi Olocausti nel dopoguerra (pensiamo anche solo alle mine e ai bombardamenti chimici che uccidono e causano malformazioni ancora oggi, senza toccare la questione delle carestie evitabili e delle malattie curabili). Oggi il mondo intero è schiavo di questo paradigma.
    Il fatto che alcuni politici e burocrati possano implementare odiernamente questo tipo di politiche, su scala molto ridotta ma, pur nel confronto, non certo insignificante, in maniera in diversi casi totalmente inconsapevole, come conseguenza della confusione morale e cognitiva che domina le loro menti e la nostra epoca, non diminuisce l’intensità dell’angoscia e della ripulsa nel constatare come certe logiche si perpetuino.
    Nell’Occidente, per ogni aumento dell’1% del tasso di disoccupazione è mediamente aumentato dell’1% il tasso di suicidi. In Grecia la situazione è anche peggiore: ora ha il tasso di suicidi più alto d’Europa, sebbene i paesi del Mediterraneo abbiano storicamente basse propensioni al suicidio rispetto al Nord Europa ed all’area alpina. Le misure di austerità imposte dalle troika ai Greci [se lavorate sodo e vi sacrificate vi libererete dall'indebitamento: “Arbeit macht frei”] hanno finora causato un aumento del 40% dei suicidi (dati del Ministero della Sanità greco) e si parla di migliaia di casi. A Srebenica le vittime furono 8.372, in Grecia si stima che entro la fine dell’anno il numero di suicidi complessivo avrà superato la metà di questa soglia (erano state oltre 2500 tra il 2010 ed il 2012).
    Migliaia di esseri umani (e relative famiglie) sacrificati sull’altare dei mercati, della competitività, della crescita compulsiva, della speculazione forsennata, della dismisura del nostro tempo. E non sono solo le persone a morire, è anche l’idea di un’Europa e di un’umanità solidale, affratellata.
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