"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Marco Pontoni
(31 gennaio 2013) È effettivamente semplicistico definire la guerra in corso nel Mali "neocoloniale", come sottolineato fra gli altri dal ministro Riccardi, che l'Africa la conosce. I fondamentalisti, o qaedisti - contro cui la Francia è recentemente scesa in campo, accogliendo anche il supporto dell'Italia - non sono i Viet Cong e non conducono una guerra di liberazione; sono essenzialmente un corpo estraneo all'Africa saheliana, che è in gran parte musulmana, questo sì, ma non integralista, se non altro perché nell'Africa nera l'Islam ha dovuto venire a patti con le culture e le religioni autoctone (cosa che ha dovuto fare anche il cristianesimo).
In quanto all'altro spezzone dell'insurrezione antigovernativa, quello Touareg, è difficile capire in che rapporti stia con la Jihad: i Touareg, nomadi, rivendicano una patria da almeno vent'anni, nel Mali, ma il loro attrito con il governo centrale di Bamako non è mai sfociato in un conflitto di queste dimensioni, probabilmente per mera mancanza di mezzi. Le cose sono cambiate con il rientro dei Touareg che avevano prestato il loro servizio nell'esercito di Gheddafi, dopo la caduta del dittatore, e con il riversarsi nel Sahel di una parte degli arsenali bellici libici.
La verità è che nessuno, né in Europa né in Africa occidentale, vuole che fra Mali e Algeria si instauri un regime fondamentalista. La ragione dell'intervento della Francia sembra essere piuttosto politica, nel senso pieno del termine. Il Mali, ex-colonia francese posta a cavallo fra il golfo di Guinea e la costa mediterranea dell'Africa, è un paese grande e importante, anche se poverissimo. Un paese dove convivono popoli dalle lingue e dalle culture diverse, il che vale per tanti stati-nazione, ovviamente, ma che in Africa assume un peso tutto speciale perché i confini dei paesi africani sono stati tracciati sulle carte geografiche dagli europei, a tavolino, spesso senza sapere neanche che cosa essi racchiudessero.
Quei confini sono sempre risultati difficili da comprendere dalle popolazioni nomadi (la qual cosa vale per i Touareg del Mali così come, ad esempio, per i beduini che nel 1948 si sono ritrovati improvvisamente all'interno del neocostituito stato di Israele, costretti ad abbandonare la vita nomade per quella sedentaria). Su questo genere di tensioni si innesta oggi il fondamentalismo, in particolare nella sua versione falafita. Che, come dicevamo, non è una espressione autoctona: l'Islam in Mali ha una gloriosa tradizione, i griot, i cantastorie locali celebrano da sempre il famoso pellegrinaggio alla Mecca del sultano Cancan Moussa, nel 1324, che seminò tanto oro lungo il suo cammino da causare una inflazione epocale, generando al tempo stesso il mito di Timbuctù "Eldorado africano".
Ma questo Islam non ha nulla a che spartire con quello salafita, non a caso le notizie che arrivano dal Mali in questi giorni parlano di luoghi sacri profanati e di moschee storiche distrutte dagli stessi integralisti. Che si potesse fare altro, prima che le cose degenerassero fino alla situazione attuale, è possibile: il nostro ex-presidente del Consiglio Romano Prodi ci ha provato, nelle sue vesti di inviato delle Nazioni Unite, senza riuscirci.
Lo stesso governo di Bamako è tutt'altro che una trasparente democrazia: lo scorso marzo la capitale è stata teatro di un golpe militare, ordito da spezzoni dell'esercito che ritenevano troppo debole la condotta del presidente Touré nei confronti degli insorti, a cui è seguito il faticoso insediamento di un governo di transizione. In ogni caso, vista da qui, la guerra in Mali, dopo l'intervento francese, sembra essere una riedizione, in minore, di quella in Afghanistan, piuttosto che un nuovo Iraq. Una guerra in cui le ragioni economiche e geopolitiche sfumano in quelle ideologico-culturali, che vedono contrapposti l'Occidente e i suoi alleati ad un arcipelago di forze mosse da una visione delle cose radicalmente "altra", e che creano qualche imbarazzo anche ai paesi delle "primavere arabe" come l'Egitto, dove il peso della religione sulla sfera politica è sempre più forte.
Forse, al fondo, in ogni spiegazione onnicomprensiva del mondo e dell'uomo, in ogni tesi indimostrata, in ogni verità che non scaturisce dal libero confronto ma da una "rivelazione" alberga almeno una fiammella fondamentalista. La politica moderna, pur con tutti i suoi limiti, ha trovato quella che mi pare sia l'unica risposta possibile al problema in un'insieme di "argini" che si chiamano carte costituzionali, tutela delle minoranze, laicità dello Stato, distinzione fra sfera civile e sfera spirituale (pur riconoscendo, in maniera più o meno accentuata, a seconda degli ordinamenti, le mutue influenze dell'una sull'altra e viceversa). Questo è quanto ha fatto l'Europa dopo secoli di conflitti a sfondo religioso e pur rimanendo aperte ancora molte questioni in ordine ai diritti civili e al loro godimento. Questo è quanto respinge con violenza l'Islam "radicale", per usare una definizione di per sé ambigua. Un problema peraltro all'ordine del giorno anche in altri contesti culturali e religiosi, si pensi ad esempio al rapporto che gli ebrei ultraortodossi hanno con lo Stato e le istituzioni di Israele.
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