"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Cibo e libertà

La copertina del libro di Carlo Petrini

(17 dicembre 2013) Grande folla ieri sera all'auditorium della Cantina La-Vis alla presentazione del nuovo libro del fondatore di Slow Food Carlo Petrini. S'intitola "Cibo e libertà". Quella che segue è la presentazione di Michele Serra su "La Repubblica".

Il cibo non è mai stato così di moda. Dilaga in televisione, trascina nell'immaginario pop le forme e le parole della ristorazione alta generando un vero e proprio kitsch gastronomico, con emulazioni del lusso spesso ridicole, promuove la figura del cuoco - oggi rigorosamente chef - a un rango professionale e sociale ambitissimo.

Ma il cibo, al tempo stesso, forse non è mai stato così frainteso e misconosciuto. Madri e nonne contadine, e i nostri progenitori in generale, ne conoscevano la natura materiale (e la genesi agricola) assai meglio di molti concorrenti di un reality culinario.

Carlo Petrini direbbe che ne conoscevano "il valore". Il lavoro che il cibo conteneva. Le tradizioni che incarnava. La socialità profonda che la tavola imbandita, anche poveramente, catalizzava. Per paradosso, una società assai meno alfabetizzata ed emancipata della nostra ha avuto per secoli, del cibo, una concezione più colta. E più politica, proprio perché il cibo era l'incontrastata materia prima della vita; oggi altri consumi, dall'elettronica all'abbigliamento, hanno decisamente la meglio nella formazione dell'identità individuale e collettiva. Per nutrirci spendiamo circa il dieci per cento dei nostri quattrini. Per la sola comunicazione (telefonini, computer, tablet eccetera) almeno il triplo.

La lunga, fervida storia di Carlo Petrini, dei suoi compagni di strada, delle sue creature di fama mondiale (Slow Food, l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, e quella vera e propria Internazionale Contadina che è Terra Madre) è, soprattutto, un ostinato tentativo di "liberare" il cibo dalla sua alienazione. Di restituirgli umanità, significato, socialità. Nel suo ultimo libro, Cibo e libertà - titolo orgogliosamente politico - Petrini rivive la sua straordinaria avventura di gastronomo, di leader contadino, di organizzatore infaticabile. Un'avventura partita negli anni Ottanta con Arcigola. Dalla testa china nel piatto nei ristoranti e nelle osterie delle Langhe, per risalire inesorabilmente ai campi, perfezionando l'intuizione di pochi, preveggenti pionieri della gastronomia (tra i quali Luigi Veronelli) per i quali i piatti, i sapori, gli aromi erano la via maestra per conoscere un territorio, per "camminare i campi", per incontrare gli uomini e capire le loro storie.

Ai produttori del cibo, i contadini, gli allevatori, i pescatori, i trasformatori, Petrini ha dedicato la vita, rivendicando alla gastronomia una natura scientifica e una potenza di indagine che lo stereotipo del conoisseur gaudente non riflette, e anzi distorce e tradisce. In termini marxiani si potrebbe dire che Petrini, non accontentandosi dalla sovrastruttura, ha tenacemente cercato la struttura. Domandandosi che cosa mangiamo si è domandato come funziona il metabolismo del pianeta, perché il prezzo del cibo è così spesso determinato dalla speculazione finanziaria, perché i contadini sono impoveriti oppure sono impediti di coltivare ciò che vogliono e ciò che sanno per colpa di micidiali processi di monopolizzazione e serializzazione della produzione agricola, perché il brevetto delle sementi (non solo quelle ogm) porta alla proletarizzazione dei coltivatori. Spiega perché le biodiversità vanno difese: non certo per un vezzo passatista, ma perché sfamano, perché nel lungo periodo sono più affidabili e resistenti delle colture intensive, perché rendono il pianeta più bello e più vario, perché, infine, l'auto- determinazione dei produttori è libertà.

Quella che è meno facile spiegare, ma che il lettore di Cibo e libertà riuscirà almeno a intuire, è l'intensità umana, più unica che rara, di questo lungo viaggio petriniano. La sua capacità di coinvolgere e lasciarsi coinvolgere, il suo interminabile convivio, ad ogni latitudine e longitudine, con comunità sempre diverse, dai villaggi del Kenya alle fattorie americane, sentendosi ovunque "quasi a casa", attraverso un processo di identificazione e di solidarietà con "diversi" sempre affratellabili. Ogni pregiudizio sul presunto anti-globalismo suo, di Slow Food, di chiunque si batte per la difesa delle colture locali, diventa davvero stravagante al cospetto di una biografia, la sua, del tutto globalizzata: pochi hanno viaggiato quanto lui, conosciuto quanto lui colture e culture differenti, messo in rete comunità infinitamente distanti aiutandole a riconoscersi nei problemi comuni. La chiocciola di Slow Food e lo slogan "buono, pulito e giusto" campeggiano nei luoghi più disparati del mondo.

Petrini è di quelli che hanno cura del creato. Vede il mondo come un complesso, meraviglioso, delicato intreccio di differenze. Un termine che usa molto spesso, in questo suo libro, è "olistico". In parole povere - da tavolo di osteria - vuol dire che tutto si tiene, tutto è connesso, niente può essere trattato con rudezza o con superficialità senza che il danno si ripercuota sull'insieme. Quando Slow Food si batte per difendere una lenticchia, e la indica con il dito, lo sciocco guarda la lenticchia.

 

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da roberto devigili il 26 dicembre 2013 15:30
    Grande folla quella sera a Lavis, è vero.
    Ma nonostante i diversi richiami di Carlo Petrini all'importanza dei contadini (che nella sua ideale classifica ha posizionato al II posto, preceduti solo dalle donne), appena il relatore ha terminato il suo intervento e si è passati ad una, preannunciata, breve e sobria premiazione dei tre soci più anziani e dei tre più giovani della coperativa La Vis, poco rispettosamente, a mio parere, metà dei presenti hanno sfollato...
    peccato
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