"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
“Finale di partito” è stato solo il pretesto per una lunga chiacchierata che ha toccato alcuni temi dell’attualità politica. La sfiducia nei confronti dei partiti, certo, ma più in generale la sensazione di una crisi generalizzata di tutte quelle realtà che dovrebbe essere capaci di “trasformare l’io in noi”, e che oggi arrancano. Tutti quei corpi intermedi che hanno rappresentato per anni la cinghia di trasmissione della democrazia rappresentativa. I partiti (ma lo stesso discorso può essere fatto per sindacati e grandi associazioni nazionali) galleggiano dentro una “fine senza fine”, che fa sì che sempre più ampia risulti la distanza tra rappresentanti e rappresentati, così da portare ad un rapido contagio anche delle istituzioni che negli ultimi decenni sono state il centro del modello democratico, così come lo abbiamo conosciuto. Fragile e contradditorio forse, ma funzionale.
Di crisi della rappresentanza si parla da anni. La democrazia, prima descritta come “dei partiti” si è trasformata poi in democrazia “del pubblico” (Bernard Manin) arrivando oggi ad essere “dei pubblici” – caotici – o addirittura post-democrazia, secondo la definizione di Colin Crouch. Già nel 1949 Adriano Olivetti pubblicava “Democrazia senza partiti” attaccando frontalmente i leader politici dell’epoca, che ai nostri occhi oggi sembrano dei giganti. Gran parte delle proteste degli anni ’60 e ’70 si basavano – con varie sfumature – sul mancato riconoscimento del potere costituito, e sulla ridefinizione (rivoluzionaria o meno) del modo di approcciarsi alla rappresentanza politica. Anche all’inizio del nuovo secolo i movimenti antiglobalizzazione – per arrivare fino agli Indignados o ai fenomeno Occupy – hanno avuto tra i propri punti fondanti l’accusa al sistema della delega, proponendosi di generare nuovi modelli partecipativi. E’ proprio la forma di questo cambiamento, del superamento dei partiti e della democrazia rappresentativa, a rimanere tutt’oggi estremamente oscura e poco comprensibile. Mentre la sfiducia cresce, assumendo preoccupanti derive individualiste da un lato e sentimenti carichi di rancore dall’altro.
Holderlin diceva “Là dove maggiore il rischio, cresce anche ciò che salva”. Proprio in questa direzione sembra muoversi Revelli proponendo di “concentrarsi sui processi di democratizzazione più che sulla riforma (possibile?) della democrazia formale”, e di conseguenza rendere patrimonio comune quelle esperienze che puntano a descrivere nuovi modi di collettivizzare ragionamenti, scelte e persino stili di vita. Revelli fa riferimento diretto alla Val di Susa e, mi sembra di capire, più al cambiamento sociale e culturale generato dal rianimarsi di una comunità che all’opposizione all’Alta Velocità in sé. Trovo questo cambio di paradigma, in direzione di una rinnovata centralità dell’animazione e dello sviluppo di comunità, particolarmente interessante e meritevole di approfondimento, idea che condividono anche gli altri partecipanti alla scuola di formazione. Per andare oltre il “finale di partito”, che Revelli descrive così bene nel suo pamphlet, è fondamentale lavorare all’attivazione dei rapporti di prossimità – le unicità culturali, sociali, politiche e economiche – che costituiscono la ricchezza di ogni territorio, senza dimenticare quanto sono importanti oggi le reti che si propagano ben oltre i confini delle nostre comunità di appartenenza. Serve quindi impegnarsi nella manutenzione delle filiere corte della democrazia (quelle in qualche maniera oggi più sane) assumendosi anche il compito di riannodare i fili di quelle lunghe o lunghissime che soffrono di una gravissima delegittimazione. Questo sguardo strabico ci potrebbe aiutare.
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