"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
Domenica prossima, in occasione delle primarie per la segreteria e l'assemblea del PD del Trentino, andrò a votare. E questo nonostante avverta una distanza crescente verso un partito, lo dico con rammarico, che non è riuscito nel suo intento costituente, quello di mettere in gioco le tradizioni culturali novecentesche da cui proviene in un disegno di nuovo umanesimo, capace cioè di offrire risposte originali alla condizione di un'umanità che ha oltrepassato il limite della sostenibilità. E, nel far questo, di re-immaginare le forme storiche dell'agire politico che, in un contesto sempre più interdipendente, fossero in grado di rapportarsi con le cifre – sovranazionali e territoriali – del presente.
Territoriali ed europei, questo doveva essere l'orizzonte di una nuova proposta politica. Ma ai miei occhi, oggi il PD è un partito incapace tanto di visione europea, come di partire dai territori. L'Europa è il luogo della trattativa degli interessi nazionali (il contrario di uno sguardo europeo), i territori sono i terminali della ricerca del consenso, nell'estenuante sondaggio demoscopico cui è ridotto il confronto politico.
Anche l'impronta che segna la nuova fase politica del governo Renzi contribuisce ad allargare questa distanza: nel patto per una pessima legge elettorale in cui il voto dei cittadini è diseguale, nella scelleratezza con cui si intende mettere mano al Titolo V della Costituzione svuotando le già misere competenze delle autonomie regionali, nella superficialità con cui si affronta una crisi strutturale che richiederebbe un profondo cambio di paradigma in nome della valorizzazione nell'unicità dei territori, dell'austerità e della riqualificazione dei consumi.
Questo non è il partito per il quale vent'anni fa decisi insieme ad altri che era finito il tempo dell'autorappresentazione politica. Ciò non significa tornare sui propri passi, sarebbe avvilente oltreché impraticabile (come non lo è per l'UpT nel suo ossessivo riferirsi al popolarismo), ma piuttosto impegnarsi per costruire – nel pensiero come nelle forme politiche – un progetto territoriale ed europeo.
Sono convinto che nell'anomalia politica trentina di questi quindici anni, pur fra mille contraddizioni, ci fossero gli ingredienti per intraprendere questa strada, tanto sul piano della capacità di autogoverno, quanto nella visione aperta che questa terra ha dato di sé. E non mi riferisco solo alla sperimentazione politica originale che questa anomalia ha reso possibile, ma anche al tessuto sociale e partecipativo che ha fortemente attenuato le dinamiche dello spaesamento altrove devastanti.
Un sentire trasversale che rischia di andare disperso per effetto di un laboratorio che, stretto fra omologazione e derive populiste, è andato spegnendosi proprio nel momento in cui la politica “nazionale” mostrava tutta la propria inadeguatezza.
Nel voto d'autunno prima, nelle scelte di governo poi, l'esito è un Trentino che sembra aver smarrito la propria capacità di innovazione politica, tanto da mettere in discussione le più importanti riforme che ne avevano caratterizzato il cammino: la riforma istituzionale con le comunità di valle, ovvero l'idea di ridisegnare il Trentino trasferendo competenze di governo sul territorio; il nuovo PUP come strumento di autocoscienza e di animazione territoriale; l'autonomia scolastica, quel processo di riqualificazione e di osmosi con il territorio che si fondava sul concetto di responsabilità; la sfida dell'ICT nel collegare ogni angolo anche più remoto del nostro territorio con la fibra ottica in un sistema di dati aperti e caratterizzati dal software libero.
E malgrado ciò c'è un patrimonio di immaginazione politica, autogoverno, esperienza, dentro e fuori i partiti, dal quale partire. Da qui vale la pena riprendere il filo conduttore. Ne abbiamo il dovere e la responsabilità, anche attraverso un passare la mano fra generazioni che vorremmo come formazione e trasmissione delle esperienze piuttosto che nell'aridità delle regole e della rottamazione.
Per queste ragioni domenica andrò a votare e voterò per Giulia Robol: nella sua mozione ho avvertito i tratti di questa esigenza e di questo patrimonio da investire.
Non per un PD più forte e coeso, ma per un partito consapevole della propria inadeguatezza, che non ritiene esaurita la propria ricerca originale, che immagina di andare oltre.
4 commenti all'articolo - torna indietro