"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(26 agosto 2014) Un segno del tempo. Così si potrebbe descrivere quel che sta avvenendo in terra trentina attorno alla vicenda dell'orsa Danica (così si scrive nella lingua dei suoi luoghi di provenienza, pur pronunciandolo Daniza).
Negli ultimi anni ho seguito da vicino, anche come componente della III Commissione Legislativa Provinciale, l'evolversi del programma ormai ventennale di ripopolamento degli orsi in Trentino. Un programma che – quand'anche rivedibile in qualche suo dettaglio – ha avuto successo (oggi gli orsi sono già oltre quaranta, testimoniando un ambiente fertile alla loro riproduzione) e che ha contribuito non poco all'immagine del Trentino quale ecosistema naturale di particolare eccellenza che, per la verità, non sempre merita.
In quella sede ho avuto a che fare con il peggio dell'antropocentrismo o più semplicemente con la stupidità di chi sosteneva – testuali parole – che “l'unico orso con il quale avrebbe voluto aver a che fare era quello in padella”.
Ho già scritto a suo tempo quel penso della paura ancestrale che si è generata nei confronti di questo animale che, peraltro, abitava la nostra terra da prima degli umani e del fatto che contro l'orso si è sviluppata una campagna insopportabile che nei toni usati dalla Lega (e non solo) aveva molte assonanze con quelle contro gli immigrati, in questa circostanza più esplicita circa la possibilità di eliminazione del problema tramite soppressione. Come se l'orso costituisse una sorta di operazione verità sul peggio che abbiamo dentro di noi.
Penso all'opposto che il programma debba proseguire, riequilibrandolo sull'insieme del territorio provinciale (e non solo nella sua parte occidentale), spiegandone alla popolazione gli obiettivi e le ricadute sul territorio trentino nel suo insieme. E che l'orsa Danica vada lasciata in pace insieme ai suoi cuccioli (che come è naturale che sia difende dalle insidie dell'uomo) e non molestata magari per farne uno scoop giornalistico o al bar con gli amici.
Quel che purtroppo sta avvenendo nella polarizzazione fra pro o contro l'orso è invece quanto di più avvilente si possa assistere. Vedere gli animalisti (peraltro venuti da chissà dove) che si scontrano con gli uomini della montagna provoca in me solo rabbia e dolore.
Gli uni ad insultare gli altri, i primi a pensare l'ambiente come una cartolina patinata, senza nemmeno rendersi conto che è nell'equilibrio di chi ci vive – cioè nell'ambiente rapportato ai processi di trasformazione – che possiamo misurare l'autosostenibilità di un territorio.
Gli altri a considerare l'ambiente e gli animali che (al pari dell'uomo) ne sono parte come una loro proprietà, quasi non l'avessimo ricevuta in prestito dalle generazioni a venire per consegnarla senza comprometterne gli equilibri. E a pensare la sostenibilità come il carico massimo consentito in un determinato momento, piegando il futuro al profitto immediato (le vicende degli impianti di risalita e dei bacini per alimentarli sono lì a dirci di questo insano rapporto con il territorio).
La necessità di costruire un dialogo fra le pur diverse sensibilità dovrebbe essere il ruolo della politica, che invece tende – nell'esasperata ricerca del consenso – a soffiare sul fuoco. O, come nel caso di una parte piuttosto significativa dell'amministrazione provinciale, nel vivere la questione come qualcosa di ereditato dal passato e di cui farebbe volentieri a meno, anziché rivendicarne l'intuizione e la scelta. E, come in ogni scelta, costruire condivisione sul piano culturale, per cui se c'è da mettere mano in corso d'opera al programma, questo non ne comporti la cancellazione. Quella dell'orso non sarà forse la cosa più importante di cui occuparsi, ma anche nelle piccole cose si misura il grado di civiltà di una comunità.
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