Venezia, 5 giugno 1999. Da pochi giorni le armi tacciono e gli accordi
siglati a Kumanovo sembrano tenere, nonostante la beffarda occupazione
dell’aeroporto di Pristina da parte dei soldati russi entrati in Kosovo
prima della Nato. Anche gli aerei che partivano dall’Italia carichi di
ordigni di morte per tornarsene vuoti rimangono a terra.
In un bar della Giudecca gli sguardi s’incrociano. C’è preoccupazione e anche un po’ di disincanto. Pesa una guerra chiamata umanitaria che ha stracciato l’articolo 11 della nostra Costituzione. Come pesano i rituali, anche quelli del pacifismo, che sembrano ripetersi all’infinito nel rincorrere gli avvenimenti come nella ricerca del colpevole, quasi non sapessimo fare a meno di ricondurre a forza quel che accade negli schemi ideologici di sempre.
Con Tonino ci conosciamo appena. Molto diversi, non c’è che dire, lui del profondo sud con il lungomare fra Scilla e Cariddi negli occhi ed io nato fra le montagne trentine, nipote dell’“austriaca gallina”. Entrambi veniamo da lunghe frequentazioni balcaniche e forse anche per questo ci vuole poco per sintonizzarci. Le terre che amiamo non hanno bisogno del nostro aiuto (specie se l’umanitario è fatto di bombe e missili), né tanto meno di tifosi capaci solo di riesumare l’impero del male, come se la tragedia che ha segnato la fine della vecchia Jugoslavia fosse stata pianificata a Washington. Di essere comprese, semmai.
Per oltre un decennio i Balcani hanno continuato ad inviare messaggi che nessuno o quasi ha saputo raccogliere, ed ora – dopo l’ennesimo capitolo di una guerra senza fine – eccoci ancora fra logiche emergenziali e manichee.
Eppure si trattava di messaggi utili a capire il nostro tempo. Messaggi che ci parlavano di guerre moderne che non si accaniscono contro gli eserciti avversari ma contro la cultura, le città (non a caso si è parlato di “urbicidio”), le biblioteche nazionali e i simboli della storia (il “vecchio” è stato abbattuto per questo). O della postmodernità e del proliferare degli stati mafia quando invece per anni si è parlato di conflitti arcaici o etnici nascondendo così la realtà di una nomenclatura corrotta i cui esponenti facevano affari durante i regimi, che hanno continuato a farli nei contesti di guerra e che hanno smesso con grande disinvoltura la tuta mimetica per indossare i panni dei businessman, il tutto in nome di appartenenze genetiche attraverso le quali nascondere la vera natura del proliferare di piccole patrie che altro non sono che stati offshore, dove non vige alcuno stato di diritto ma democrazie plebiscitarie (il neofeudalesimo). Che guardavano all’Europa non come richiamo retorico o luogo d’incontro degli Stati, ma dell’urgente necessità di un approccio post nazionale che avrebbe potuto evitare ieri quella tragedia ed oggi il rinchiuderci egoistico. Ed infine ci raccontavano di una cooperazione che proprio nei Balcani stava imparando una strada nuova, fatta di ponti attraversati in entrambe le direzioni e di relazioni profonde sulle quali investire, quale risposta ad una crisi profonda dalla quale è possibile uscire solo attraverso un diverso sguardo sul mondo.
Messaggi che, a dieci anni di distanza, sono in gran parte sospesi in aria, ancora fondamentalmente incompresi. E noi, a rincorrere gli avvenimenti.
Ma in quel bar veneziano, dove in un anonimo tavolino s’incontrano due Italie così diverse sulle quali negli anni successivi ci saremo trovati più volte ad ironizzare , le proposte più improbabili diventano leggere. Nasce così, in questo incrocio “mediterraneo” di mondi e saperi, venti e mari, l’idea dell’Osservatorio permanente sui Balcani. L’altro piccolo miracolo avverrà nei mesi successivi, nel richiamare la politica ad uno sguardo lungimirante, capace di investire senza un immediato ritorno d’immagine. Che pure ci sarà, considerato che OB diverrà in pochi anni un luogo di eccellenza, contribuendo a collocare il Trentino in una posizione di prestigio europeo ed internazionale.
Milioni di parole, storie raccontate, occasioni d’incontro che ne sono venute… migliaia di persone che ogni giorno con un clic si mettono in rete, l’impegno professionale di chi tutto questo rende possibile… bene, tutto ciò mi riconcilia con il senso dell’agire. Una miniera di informazioni, affreschi di un decennio complesso, duro, per certi versi esplosivo, nel tentativo di fornire sguardi non banali e spunti di riflessione.
Ripercorrere questi dieci anni con lo sguardo rivolto verso e dall’Europa di mezzo, ci può fornire una chiave di lettura straordinariamente interessante non solo dei processi di transizione che hanno segnato i paesi dell’area balcanica, ma anche e soprattutto delle interdipendenze che legano i destini europei, euro-caucasici ed euromediterranei.
Il XX secolo si chiude nei Balcani consegnandoci una regione ancora profondamente destabilizzata. Milosevic, nonostante o forse grazie alla guerra, è ancora al suo posto. La Federazione Jugoslava (allora si chiamava ancora così l’Unione fra Serbia e Montenegro) segnata da 78 giorni di bombardamenti e da un decennio di guerre. Il Kosovo ridotto a macerie. La Macedonia lacerata tanto da rischiare, di lì a breve, una nuova recrudescenza del conflitto. La Bosnia Erzegovina alle prese con la ricostruzione ma soprattutto con un paese diviso in ogni cosa e lacerato nelle coscienze. La Croazia in preda all’isteria nazionalista (e degli affari). Karadzic e Mladic ancora in libertà e con loro buona parte dei criminali di guerra, in Kosovo come in Croazia. E dove non è passata la guerra, le macerie sono il prodotto di un capitalismo selvaggio che ha preso il posto, quasi con naturalezza, delle vecchie mafie di regime.
E’ in questo scenario che l’Osservatorio muove i primi passi. Anni di volontariato ci inducono ad una forte attenzione verso la cooperazione internazionale che ancora colloca questa regione fra le aree di emergenza e di grande investimento. L’analisi critica, talvolta senza appello, non oscura la straordinaria generosità di migliaia di persone e dei ponti di dialogo che si sono costruiti e che permarranno a dispetto dell’esaurirsi di un circo umanitario attratto da altre emergenze. E che costituiranno l’ossatura di un’altra cooperazione fondata sul concetto di relazione piuttosto che di aiuto, ben documentata nel tempo da “Balcani Cooperazione”.
Una cooperazione che – a dispetto dei “progettifici” – s’interroga sulla natura dei rapporti sociali e di potere, prova ad indagare sull’economia dei flussi e dei luoghi. E’ il tema dell’internazionalizzazione e della delocalizzazione delle imprese. Accanto alle reti della solidarietà, infatti, lungo i corridoi che legano l’Europa che ancora non c’è, sono transitati milioni di camion a testimonianza di un miracolo economico che avveniva altrove, nei luoghi di una deregolazione capace di sfruttare senza limiti i bassi costi della manodopera e l’assenza di normative a tutela dell’ambiente e delle risorse naturali. E’ anche il tema dello sviluppo locale, ovvero del bisogno di rintracciare nel proprio territorio gli elementi di ricchezza, materiale ed immateriale, sui quali ricostruire un’identità economica nella globalizzazione che tutto omologa.
Mettere a confronto cooperazione ed internazionalizzazione, una sfida che come OB abbiamo posto senza trovare l’ascolto necessario.
La delocalizzazione delle produzioni propone uno scenario nel quale i diritti e le conquiste sociali richiedono una nuova declinazione almeno europea e nuove alleanze. Anche in questo caso, l’attenzione è altrove e non a caso produrrà chiusure a riccio, corporativismi, ostilità verso l’allargamento dell’Unione Europea all’altra Europa.
Qui è crollato un sistema economico e sociale, lasciando dietro di sé macerie di ogni tipo. Emigrazione, in primo luogo. L’attrazione di un benessere la cui immagine è data dai messaggi televisivi. Ma il sogno dell’arricchirsi facile o magari semplicemente di un lavoro ben retribuito lascerà ben presto il posto all’incubo della marginalità sociale. Nei Balcani invece deregolazione significa spesso criminalità. Proventi di guerra, traffici di ogni tipo, riciclaggio, svendita delle risorse locali: sono il retroterra di un’economia postmoderna che ha nei “Luxuri show” che proliferano nelle capitali che un tempo furono del comunismo reale un loro simbolo. Chi non ha scrupoli è incluso, gli altri sono fuori.
Hanno vinto loro, ma c’è anche dell’altro. La società civile, la cultura, la voglia di vivere. Raccontiamo dell’impegno, della voglia di ricominciare daccapo, della letteratura, dei film, della musica, di un’ironia mai doma, nemmeno quando cadevano i missili dal cielo. Raccontiamo della speranza, che resiste a dispetto del primitivismo.
In che modo uscirne? L’integrazione europea può essere la strada. Come OB la percorriamo, ostinatamente. L’appello “L’Europa oltre i confini” che presentiamo a Sarajevo con l’allora presidente della Commissione Romano Prodi è forse il primo nostro atto politico forte. Seguito, l’anno successivo, da un viaggio di gente e di musica lungo il fiume della melodia. “Danubio, l’Europa s’incontra” unirà le grandi città danubiane da Vienna fino a Belgrado, su un battello carico di storie e linguaggi che attraversa, come ha scritto Claudio Magris, “un mondo dietro le nazioni”.
Al contrario del Danubio, l’Europa sembra procedere a ritroso. Nonostante l’allargamento a ventisette del primo gennaio 2004, il progetto europeo si ferma, riflettendo paure e ostilità che trovano voce nei referendum di Francia e Olanda. Non è in discussione l’Europa degli Stati e delle Cancellerie, ma il disegno politico che richiede una progressiva cessione di sovranità verso l’alto e verso il basso, verso l’Europa come progetto post-nazionale e verso l’Europa delle regioni. E’ il venir meno di una politica europea a tutto tondo, quella che proviamo come OB a chiamare in causa di fronte al complesso nodo dello status del Kosovo, in bilico fra principio di autodeterminazione e sovranità nazionale. L’Europa e l’idea di un ancoraggio internazionale di diritti riconosciuti ma in conflitto fra loro potrebbe costituire una possibile via d’uscita, ma la politica appare priva di fantasia. E la contraddizione diventa pasticcio internazionale.
Con l’Europa fatica a prendere corpo l’idea di una cittadinanza europea che affondi le proprie radici nelle culture che l’hanno attraversata, un’identità europea capace di guardare ad oriente oltre che ad occidente. La cui memoria nasca dall’elaborazione dei conflitti che – in questo attraversamento – l’hanno segnata. Un grande tema, quello della memoria, che segna il lavoro dell’Osservatorio negli ultimi anni, indagando nei conflitti come nella storiografia, quella ufficiale e spesso dedita alla retorica, come quella più profonda e ruvida del racconto infragenerazionale che trova nel dolore negato il proprio humus naturale.
La fatica dell’Europa nel suo percorso di costruzione politico istituzionale trova riscontro tanto nella sua (in)capacità di inclusione dei Balcani occidentali, quanto nel vuoto di strategia verso le grandi aree di prossimità, il Mediterraneo e il Caucaso, proprio nel momento in cui antichi nodi vengono al pettine lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue e di dolore. E’ il bisogno di attenzione verso tali prossimità che ha portato in questi anni OB ad allargare lo sguardo verso la Turchia, il Mar Nero e l’area caucasica, non certo quello di rincorrere le aree di crisi.
Prendendo a prestito la voce e le parole dei nostri corrispondenti, che ci aiutano a capire e a darci uno sguardo equilibrato, raramente manicheo, profondamente politico. Perché è di questo che hanno bisogno i Balcani. E noi con loro.
Dieci anni di OB sono stati questo e tante altre cose ancora. Grazie davvero. Talvolta le intuizioni vanno a buon fine.
Michele Nardelli