"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Ugo Morelli
Il conflitto generativo
Città nuova, 2014
Nel linguaggio di ogni giorno e non solo, quando si dice conflitto si intende guerra. Guerra e violenza, pertanto, restano egemoni su vari piani e in particolare nel linguaggio ordinario e nella narrazione storica. Sono proprio la parola “conflitto” e le fenomenologie che essa indica a non avere cittadinanza nel linguaggio e nella prassi. Il conflitto, infatti, è costantemente confuso con la guerra. Quando si dice conflitto, di solito, si intende guerra, indifferentemente.
Non emerge una domanda di conoscenza rispetto alla distinzione tra guerra e conflitto. Né si afferma ancora il bisogno di conoscere rispetto agli incontri tra differenze, culture, interessi, individuazioni e appartenenze diverse, orientamenti e spiegazioni del mondo. Tende anzi a prevalere la negazione. Eppure la conoscenza potrebbe essere la via per riconoscere la generatività del conflitto e la sua distinzione con l’antagonismo e la guerra, con le conseguenti opportunità per la creazione della cooperazione e della pace.
La domanda da cui trae origine questo contributo sulla generatività del conflitto, infatti, è se potrà mai esserci cooperazione efficace e pace effettiva tra noi esseri umani e con tutto il sistema vivente di cui siamo parte, senza un’adeguata attenzione alla conoscenza. Solo a condizione di conoscere potremo avere una descrizione della nostra esperienza umana che non sia mutilata.
Nella maggior parte delle nostre relazioni e della nostra esperienza sono l’approssimazione, l’incontro con le differenze, il confronto, il dialogo con chi non la pensa come noi, a predominare. Mentre la guerra e l’antagonismo, pur con la loro costante presenza, eclatante per gli effetti della distruttività, hanno una risonanza che li presenta come se fossero dominanti.
Evidenziare la complessa rete di conflitti, cioè di incontri di differenze, di confronti, di dialoghi, di contrasti, di quasi-accordi, di accordi parziali, di negoziazione, di tentativi, di fallimenti relazionali, vuol dire cercare di conoscere queste situazioni e di dare loro voce e spazio. Abbiamo anzi tutto bisogno di conoscere e di non negare la nostra natura per
poter costruire approssimazioni efficaci, dialoghi riconoscenti tra differenze, confronti che generino emancipazione reciproca ed evoluzione delle posizioni individuali. Una scienza della pace dovrebbe, perciò, essere in primo luogo una scienza del
conflitto. Dovrebbe cioè occuparsi di comprendere l’aggressività umana e i molteplici modi di elaborarla, a partire dall’ipotesi che le nostre emozioni aggressive possono portarci ad avvicinarci o a distruggerci, a seconda di come le elaboriamo nelle nostre relazioni e di come ci educhiamo a vivere con gli altri. Sappiamo di essere portatori di una elevata plasticità che ci rende sensibili agli altri e al contesto. Sappiamo, ancor prima, che la nostra individuazione personale, il complesso percorso attraverso il quale diveniamo noi stessi nell’intero arco della nostra vita, si genera nelle relazioni con gli altri.
A diversi livelli di intensità e di influenza, dalle relazioni primarie ai molteplici incontri della vita quotidiana, noi diveniamo in continuazione noi stessi in una lunga catena di provvisorie identificazioni. Ognuna delle relazioni e delle esperienze che viviamo ci educa: letteralmente fa venire fuori da noi quello che diventiamo. La distruttività umana pare essere collegata al modo in cui quelle relazioni ci sostengono nell’elaborazione della nostra aggressività. Possono sostenerci prevalentemente nella direzione della reciprocità, del dialogo, della buona elaborazione delle differenze con cui ci incontriamo e, quindi, dei conflitti; oppure possono sostenerci verso comportamenti distruttivi, che negano le differenze, che fanno vincere la paura di conoscere e cambiare, che fanno prevalere l’uso della forza. I limiti delle invocazioni morali rispetto ai tentativi di far prevalere comportamenti pacifici e cooperativi sono evidenti.
Quei limiti dipendono forse da una non sufficiente attenzione alla conoscenza dei nostri comportamenti effettivi e dei processi psichici e relazionali che stanno alla base dei nostri modi di agire. In particolare la conoscenza dovrebbe riguardare, perciò, sia le ragioni che ci portano a negare il conflitto e le differenze, ma anche la nostra stessa aggressività, sia le forme di elaborazione dell’aggressività, da quelle prevalentemente cooperative a quelle prevalentemente distruttive. Cercare di far prevalere la conoscenza sulla negazione, insomma, è una condizione decisiva per comprendere l’aggressività umana, le sue trasformazioni cooperative o distruttive e i modi possibili di favorire la prevalenza della generatività del conflitto. Non sono poche le conoscenze che abbiamo sul nostro comportamento e sulle dinamiche delle nostre relazioni con gli altri e, soprattutto, esse si sono profondamente ridefinite negli ultimi tempi. Possiamo avere oggi una nuova immagine di noi stessi.
Sappiamo molte più cose rispetto al recente passato su come costruiamo il nostro cervello cosciente e su come diventiamo quello che siamo nelle relazioni con gli altri. Sappiamo più cose su come ci siamo evoluti come specie umana sul pianeta Terra e sul nostro essere parte del tutto nel sistema vivente.
Abbiamo conoscenze importanti sui comportamenti egoistici e altruistici e sulle emozioni cosiddette positive e negative che li sostengono. Sarebbe difficile, ad esempio, comprendere le dinamiche conflittuali, e non solo quelle con esiti distruttivi, ma anche quelle che evolvono in esiti cooperativi, senza considerare il ruolo delle emozioni negative e il piacere del cinismo, della distruttività e della guerra nell’esperienza umana. Le luci e le ombre dell’anima devono essere guardate in faccia e comprese, se si vuole cercare di creare una scienza e una prassi del conflitto.
Ugo Morelli, Il conflitto generativo, la responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell'indifferenza (Città Nuova, 2014)
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