"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(25 ottobre 2014) Oggi non sono né a Firenze, né a Roma. Non sono alla "Leopolda" ma nemmeno alla manifestazione della Cgil perché ritengo che gli uni come gli altri – pur nella loro diversità – continuino a rappresentare lo stesso paradigma novecentesco. Che andrebbe superato in virtù della presa d'atto del carattere limitato delle risorse e del fatto che i diritti se non sono universali avvengono alle spese di altri, diventando così privilegi.
Cosa deve accadere perché i pronipoti delle “magnifiche sorti progressive” si rendano conto che così non si può andare avanti? Non basta il surriscaldamento terrestre e i cambiamenti climatici per comprendere che quel sedicesimo di crosta terrestre che ci serve per nutrire il pianeta si sta riducendo a vista d'occhio, che i mari si stanno drammaticamente impoverendo e con essi le specie nonché le biodiversità? Non sappiamo che l'impronta ecologica ha già superato ampiamente quel che gli ecosistemi riescono a riprodurre? Non ci rendiamo conto che, secondo le previsioni demografiche, nel 2030 saremo sul pianeta in 9 miliardi di esseri umani, ciascuno di essi portatore di diritti ed aspirazioni? Come non capire che se non vogliamo diventare preda del diritto naturale (la legge del più forte) dobbiamo riconsiderare stili di vita e consumi? Come non rendersi conto che il principio stesso di competitività è diventato lo strumento aggressivo per dividere il pianeta in inclusi ed esclusi? Come non accorgersi che la terza guerra mondiale per il controllo delle risorse è già iniziata da tempo?
Domande che ci dovrebbero interrogare sulla necessità di agire sulla qualità piuttosto che sulla quantità in ogni aspetto della nostra esistenza, su un uso delle nuove tecnologie per redistribuire il lavoro e per avere maggiori spazi di conoscenza e di relazione, su un diverso rapporto con il territorio per evitare l'entropia (ma forse meglio sarebbe dire la follia) delle città metropolitane e del nostro abitare. E su molto altro ancora.
Di questo “cambiare verso” non vedo traccia, né nelle politiche di Renzi alla disperata (e spericolata) ricerca di una ripresa che non ci sarà, né nella difesa delle conquiste del passato che, peraltro, hanno ormai efficacia per una fetta sempre più limitata di persone. Una contrapposizione novecentesca, appunto, fuori dalla quale sembra non esserci spazio per quel pensiero mediano, territoriale e federalista, sul quale abbiamo costruito l'anomalia trentina negli anni del buio dell'arco alpino. Anomalia che non a caso si vuole demolire, pezzo dopo pezzo.
Ritornare ad essere laboratorio politico significa porci queste stesse domande di visione del futuro ma anche del presente, come bussola per muoversi e governare una realtà ridimensionata sotto il profilo delle risorse finanziarie. Meglio con meno, ho cercato di dire, inascoltato.
4 commenti all'articolo - torna indietro