"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Steven Forti
(24 novembre 2014) Negli ultimi tempi della questione catalana ne abbiamo parlato in diverse occasioni. E non senza ragioni. Dal settembre del 2012 la Catalogna è uno dei nervi scoperti della crisi spagnola: cinque manifestazioni a Barcellona con una partecipazione sempre superiore al milione di persone negli ultimi quattro anni e mezzo (la manifestazione del luglio 2010 contro la sentenza del Tribunale Costituzionale riguardo al nuovo Statuto d’Autonomia, le tre Diades dell’11 settembre del 2012, del 2013 e del 2014 e la consultazione non vincolante sull’indipendenza dello scorso 9 novembre) non sono cosa da poco. Quest’ultima doveva essere il momento clou e così, in un certo senso, è stato. Momento clou, ma non quello “definitivo”.
Il referendum catalano
Come abbiamo spiegato in un articolo pubblicato il 21 ottobre scorso, a differenza della Scozia, il referendum per l’indipendenza della Catalogna ha avuto una genesi e uno sviluppo ben diversi. Convocato unilateralmente dal governo catalano, appoggiato anche da alcuni partiti dell’opposizione, a dicembre del 2013 è stato ripetutamente vietato dal governo spagnolo, che si è appellato all’incostituzionalità di un referendum di questo tipo.
L’ultima possibilità del governatore catalano Artur Mas per far sì che il referendum si tenesse nella data stabilita senza incorrere in una sospensione del Tribunale Costituzionale spagnolo o in un intervento diretto del governo di Madrid è stata quella di trasformare il referendum in una consultazione non vincolante, non convocata ufficialmente e basata su di un processo di partecipazione della cittadinanza. Grazie al lavoro di 40 mila volontari, domenica 9 novembre sono andati a votare oltre 2 milioni e 300 mila catalani su un censo di 6.228.000 aventi diritto – potevano votare anche i maggiori di 16 anni, i comunitari residenti in Catalogna da almeno un anno e gli extracomunitari residenti da almeno tre anni –, ossia il 36,6% del totale. Alla doppia domanda – “Volete che la Catalogna sia uno Stato? E in caso affermativo, volete che sia uno Stato indipendente?” – i sì-sì sono stati l’80,76%, i sì-no il 10,07%, i no il 4,54% e i voti nulli o in bianco il 3,65%.
Le interpretazioni di questo voto possono essere molteplici, anche perché, non essendo un referendum legale e con le necessarie garanzie democratiche, le ragioni dell’astensione possono essere più d’una. Quello che è certo è che una buona parte della società catalana si è mobilitata e ha dimostrato di voler votare, rendendo quanto mai necessario un accordo tra il governo di Madrid e quello di Barcellona per la convocazione di un referendum vero e proprio sul modello scozzese o canadese.
I risultati del 9 novembre hanno però dimostrato anche che quelli che si sono mobilitati sono stati soprattutto gli indipendentisti: i voti al doppio sì sono stati difatti 1.861.000, che sono poche migliaia di più di quelli che i partiti favorevoli all’indipendenza avevano ottenuto alle elezioni regionali del novembre 2012. Ossia, esiste un importante segmento della società catalana, circa un terzo, che è a favore dell’indipendenza dalla Spagna – uno zoccolo duro indipendentista che si consolida, ma non aumenta –, mentre i restanti due terzi pare che siano contrari o come minimo scettici. I risultati evidenziano ancora che la situazione è di una drammatica impasse: da due anni a questa parte non è cambiato praticamente nulla con i due governi arroccati bene o male sulle stesse posizioni. Mentre in Scozia la situazione che si è venuta a creare è stata quella che gli anglosassoni definiscono di win-win in cui nessuno perde e tutti vincono – Cameron ha mantenuto l’unità del Regno Unito e Salmond ha ottenuto una maggiore autonomia per la Scozia –, in Catalogna pare che tutti abbiano perso: Rajoy non è riuscito a impedire la celebrazione del referendum e ha ricevuto un messaggio chiaro dalla società catalana, mentre Mas non ha ottenuto la celebrazione di un referendum legale e non ha ottenuto una partecipazione superiore al 50% del censo.
In ogni caso, Mas si è salvato in corner, quando molti lo consideravano un cadavere politico. Una cosa non da poco, ma che non cambia la situazione. Ora bisognerà vedere se il governo catalano convocherà elezioni anticipate (e in questo caso se con una lista unica indipendentista, il che pare ormai difficile; con un nuovo “Partit del President”, che riunisce dietro Mas il suo partito e altri settori della società catalana o con ogni partito “soberanista” per conto proprio) o se deciderà di non sciogliere il Parlamento e trovare nuovi appoggi per arrivare alla fine della legislatura. C’è lo scoglio della finanziaria 2015, che ERC, presa in contropiede dal protagonismo di Mas nel referendum, ha deciso di non appoggiare; ma il PSC si è proposto come salvagente, anche per rientrare nei giochi politici catalani, da cui è stato escluso per il suo posizionamento sulla questione nazionale. A fine novembre Artur Mas ha dichiarato che renderà pubblica la decisione al riguardo.
La miopia del Partito Popolare
Quando oltre due milioni di persone decidono di andare a votare in un referendum non legale e non autorizzato significa che il problema catalano esiste. Un governo spagnolo serio ne avrebbe preso atto e avrebbe fatto in modo di evitare di arrivare a questo punto di quasi non ritorno, facendo delle proposte e aprendo delle vie di dialogo. Nulla di tutto questo è stato tentato da Rajoy: l’unica risposta è stata la via legale (un referendum è incostituzionale e dunque non s’ha da fare) con una giustizializzazione della politica che ha raggiunto livelli parossistici, come le pressioni sulla magistratura affinché denunciasse per disobbedienza Mas per non aver annullato il referendum dopo la sentenza di sospensione del Tribunale Costituzionale. E non facendo altro che fortificare Mas in Catalogna: venerdì scorso il Parlamento catalano ha approvato una mozione in cui si è autoincolpato collettivamente della celebrazione del referendum. Ancora una volta i due nazionalismi, quello spagnolo e quello catalano, si retroalimentano.
La miopia politica di Rajoy e del governo del PP è elevatissima: cercare la resa incondizionata dell’avversario, senza preoccuparsi di mettere in piedi una campagna sullo stile del Better together degli unionisti britannici, dimostra l’assenza di una visione di stato. Forse Rajoy se ne è finalmente reso conto: le dichiarazioni del presidente spagnolo di domenica scorsa – “Dovrò spiegare le mie ragioni ai catalani meglio di quel che ho fatto fino ad ora” – pare che vadano in questa direzione. Ma il tempo a disposizione è poco perché il 2015 si preannuncia pieno di ostacoli: a maggio ci saranno le elezioni comunali e regionali (si vota in 13 regioni spagnole su 17) e a novembre le politiche generali. Il Partito Popolare si gioca la maggioranza assoluta nelle Cortes e il controllo di regioni importanti, oltre che di città chiave in ambito locale, come Madrid e Valencia.
E pare che i sondaggi non siano affatto favorevoli al PP, che secondo un sondaggio del CIS della prima metà di ottobre, si manterrebbe come primo partito, ma perderebbe il 16% dei voti, passando dal 44,6% del 2011 al 27,5%. Il PSOE è dato ancora in calo (dal 28,7% al 23,9%, ma con un lieve miglioramento dopo l’elezione in estate del nuovo segretario generale, Pedro Sánchez), mentre la grande sorpresa è Podemos come terzo partito con il 22,5%, che si mangerebbe oltre la metà dell’elettorato di Izquierda Unida (IU) che dall’11,5% dell’estate del 2013 si troverebbe con solo il 4,8%.
Una Tangentopoli spagnola?
Ma la crisi del PP è generale: il ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardón si è dimesso a fine settembre per il fallimento del progetto di legge di riforma dell’aborto – su cui Pedro Arriola, asessore di Rajoy, ha consigliato di fare dietro front per il rischio di creare crepe anche nello zoccolo duro degli elettori di destra – e molti dei dirigenti del PP dell’epoca Aznar, e ancora strettamente legati all’ex presidente, sono imputati per importanti casi di corruzione. Ai casi Gürtel – tangenti nel PP di Madrid e Valencia – e Bárcenas – dal nome dell’ex tesoriere del PP che ha svelato l’esistenza di una cassa B del partito con vari milioni all’estero – scoppiati nel 2009 e a inizio 2013, negli ultimi mesi se ne sono aggiunti molti altri.
Ad inizio ottobre, Miguel Blesa, per oltre un decennio presidente di Caja Madrid, e Rodrigo Rato, ex presidente di Bankia (2010-2012), ex direttore del FMI (2004-2007) e ex ministro dell’Economia nel secondo governo Aznar (2000-2004), sono stati imputati per lo scandalo di Caja Madrid: tra il 2003 e il 2010 pare che 86 dirigenti della banca madrilena abbiano avuto a disposizione delle carte di credito opache con cui sono stati spesi oltre 15 milioni di euro. Vale la pena ricordare che Bankia, nata nel 2011 dalla fusione di sette casse di risparmio spagnole, la più importante delle quali era Caja Madrid, venne nazionalizzata nel maggio 2012 a causa di un buco di 23 miliardi di euro, che portò alla richiesta da parte dello stato spagnolo di un prestito di 100 miliardi di euro al BCE.
A fine ottobre, poi, nell’ambito dell’operazione Punica – bustarelle per il valore di 250 milioni di euro nell’ultimo biennio in cambio di appalti –, è stato arrestato Francisco Granados, ex segretario generale del PP della regione di Madrid tra 2004 e 2011 e uomo di fiducia di Esperanza Aguirre, il presidente popolare della provincia di Leon, Marcos Martínez Barazón, e altri sindaci e assessori del PP della regione madrilena, ma anche alcuni esponenti del PSOE, come il sindaco della città di Parla. E ancora: Ángel Acebes, ex ministro degli Interni con Aznar (2002-2004) e ex segretario generale del PP (2004-2008), è stato imputato il mese scorso per appropriazione indebita nell’ambito del caso Bárcenas.
Ma i casi sono molti e non coinvolgono solo il PP, ma tutto il sistema politico spagnolo: il PSOE con il caso degli ERE in Andalusia, il caso Pokemon in Galizia – dove sono coinvolti anche il PP e i nazionalisti del BNG – e il caso Mercurio nell’hinterland barcellonese; il sindacato socialista UGT con il caso Fernández Villa nelle Asturie; Convergència i Unió (CiU) con il caso Palau, il caso Pujol e il caso Crespo – che coinvolge anche il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) nell’ambito di indagini sulla corruzione nella sanità catalana –; la stessa famiglia reale con il caso Nóos che vede imputato il genero dell’ex Re Juan Carlos I, Iñaki Urdangarín… Nemmeno IU si salva del tutto. Non è un caso che si sia iniziato a parlare, come ha rilevato in più occasioni il vicedirettore de La Vanguardia, Enric Juliana, di una Tangentopoli spagnola. E questo è uno dei fattori che spiega il fenomeno Podemos, che clama contro la “casta” – il termine di Stella e Rizzo ha fatto scuola… – e la corruzione del sistema.
Podemos: dalle elezioni europee all’Asamblea Ciudadana di novembre
Podemos è la grande novità della politica spagnola del 2014. Ne abbiamo parlato in questo sito il 18 giugno scorso, dopo l’exploit del nuovo partito alle elezioni europee del mese di maggio (1.245.000 voti, pari al 7,97% del totale e a 5 seggi nel Parlamento Europeo). Un risultato che nessun partito con solo cinque mesi di vita aveva mai ottenuto in Spagna; un partito che ormai conta oltre 250 mila simpatizzanti iscritti alla sua web e circa mille circoli in tutto il paese. Come evidenziò il manifesto del nuovo partito, presentato nel gennaio di quest’anno, e intitolato “Mover ficha: convertir la indignación en cambio político”, Podemos non nasce dal nulla, ma si collega all’onda lunga dei movimenti sociali dell’ultimo triennio (gli indignados e il movimento del 15-M, le mareas contro i tagli all’educazione e alla sanità del biennio successivo, la Plataforma de Afectados por la Hipoteca). Secondo Pablo Carmona, membro di Observatorio Metropolitano e portavoce di Ganemos Madrid, una piattaforma nata dal basso che si presenterà alle prossime elezioni municipali nella capitale spagnola, Podemos ha saputo raccogliere parte di quelle richieste e convertire una maggioranza sociale in una maggioranza politica. Ma ne è anche un superamento: già nel febbraio del 2013 Juan Carlos Monedero, uno dei fondatori di Podemos, aveva dichiarato che “senza una guida politica, senza un programma e senza una struttura, anche se abbiamo buone idee, non possiamo risolvere tutti i problemi in cui ci troviamo sommersi”. E pare proprio che i risultati si stiano vedendo: il sondaggio del CIS della prima metà di ottobre lo dà come terzo partito in Spagna e addirittura come primo partito in alcune regioni come le Asturie, mentre un più recente sondaggio di Metroscopia di fine ottobre pone Podemos come primo partito in intenzione diretta di voto. Un terremoto senza precedenti per un sistema politico come quello spagnolo fondato sul bipartitismo PSOE-PP, partiti che governano il paese dal 1982. La paura di un successo di Podemos è reale ed è dimostrata quotidianamente dagli attacchi che sia il PP, sia la Confindustria spagnola (la CEOE) sia il PSOE e i mass media affini gli lanciano, accusandoli di populismo e di bolivarismo.
Dopo le elezioni europee Podemos è entrato in un intenso processo di dibattito interno che si è concluso lo scorso fine settimana. A giugno è stata eletta una direzione “tecnica” che ha guidato il partito fino al suo primo congresso celebrato il 26 e 27 ottobre nel Palasport di Vistalegre a Madrid e a cui hanno assistito 7 mila persone. Due le proposte presentate: il documento “Claro que Podemos” firmato da Pablo Iglesias e dal suo gruppo, tra cui si trovano i principali fondatori di Podemos (Juan Carlos Monedero, Iñigo Errejón, Carolina Bescansa e Luis Alegre), e “Sumando Podemos” firmato da tre dei cinque deputati europei eletti a maggio, Pablo Echenique, Teresa Rodríguez e Lola Sánchez. Le differenze erano soprattutto organizzative: mentre “Claro que Podemos” era favorevole a una struttura con un solo segretario generale e a un processo partecipativo che non perdesse di vista l’efficacia, “Sumando Podemos” proponeva una segreteria condivisa da tre portavoce e consegnava maggiore potere ai circoli di base. Ma vi era anche una tensione tra l’equipe di Iglesias e Izquierda Anticapitalista (IA), piccolo partito nato nel 2009, ma figlio dell’esperienza di Espacio Alternativo, realtà attiva dal 1995 al 2008: tra i fondatori di Podemos, IA controlla alcuni circoli, soprattutto a Madrid, e ha tra i suoi dirigenti proprio la eurodeputata Teresa Rodríguez. Una delle proposte di Iglesias è stata infatti anche che i membri della struttura di Podemos non possano essere affiliati ad altre organizzazioni politiche per il rischio palpabile che IA stesse facendo un lavoro di entrismo nei circoli di Podemos.
Dei 250 mila simpatizzanti iscritti alla web di Podemos hanno votato 112 mila persone: “Claro que Podemos” ha ottenuto l’80% dei voti, mentre “Sumando Podemos” solo il 12%. Un chiaro appoggio alla figura di Iglesias e alla sua proposta confermato anche la scorsa settimana nell’Asamblea Ciudadana (Assemblea della Cittadinanza) di Podemos che si è tenuta al Teatro Nuevo Apolo di Madrid, dopo una settimana di votazioni – via internet tramite l’impresa Agora Voting – per eleggere i membri delle strutture del nuovo partito. I votanti sono stati 107 mila, di cui l’88,6% (95.000 voti) sono andati alla lista proposta dall’equipe di Iglesias, che è stato dunque eletto segretario generale di Podemos. La struttura del partito è poi composta da un Consejo Ciudadano (Consiglio della Cittadinanza) formato, oltre che dal segretario generale, da 62 membri (50% uomini e 50% donne) eletti nell’Assemblea – la grande maggioranza provenienti dalla lista di Iglesias –, 17 rappresentanti regionali e 1 membro dei circoli di Podemos all’estero. Il Consejo Ciudadano si divide in diverse aree di lavoro (organizzazione, economia, partecipazione, comunicazione, uguaglianza, ecc.) e eleggerà a breve un Consejo de Coordinación (Consiglio di Coordinamento) formato da 10-15 persone che gestiranno l’attività quotidiana del partito.
Nel suo primo discorso come segretario generale, Pablo Iglesias ha spiegato la decisione di non presentarsi alle elezioni municipali di maggio 2015 – per evitare di creare una “marca” Podemos poco controllabile – e di appoggiare le diverse liste civiche che sono nate dal basso, come Guanyem Barcelona e Ganemos Madrid, ma di presentarsi alla regionali dello stesso mese e soprattutto di puntare alle generali di novembre 2015, con la volontà di vincerle. Iglesias ha poi ribadito la necessità di iniziare un processo costituente con l’obiettivo di riformare il sistema nato dalla transizione alla democrazia perché la Spagna sta vivendo “una crisi di regime”.
Podemos: discorso e programma
E questo è uno dei punti chiave che si ricollega al discorso che facevamo sulla Tangentopoli spagnola e la crisi generale (politica, istituzionale, sociale, economica…) che vive il paese iberico. In un contesto di crisi economica durissima con un tasso di disoccupazione attorno al 25% da oltre tre anni, la corruzione e la trasparenza sono due dei principali puntelli del discorso di Podemos: le undici persone contrattate attualmente dal partito e gli stessi europarlamenti percepiscono un salario di 1.290 euro al mese e la contabilità del partito, i costi della campagna elettorale (nelle europee sono stati spesi solo 138.814 euro) e l’utilizzazione dei fondi concessi dalla UE sono trasparenti e vengono pubblicati nella web di Podemos.
Il discorso di Podemos può essere letto da molti italiani come qualcosa di paragonabile al Movimento 5 Stelle, ma le differenze sono notevoli, come già scrivevo nell’articolo pubblicato su questo sito il 18 giugno. Podemos, e in questo l’equipe di Iglesias è chiave, ha deciso di non utilizzare strategicamente una terminologia chiaramente di sinistra per non allontanare possibili votanti di centro che con la sinistra non si riconoscono direttamente (nei recenti sondaggi un 17% dei simpatizzanti di Podemos ha dichiarato di aver votato PP alle ultime elezioni). Lo spiegava bene lo stesso Iglesias a inizio 2013: “Se metti la parola “sinistra” al tuo partito, non ti voterà mai una persona il cui nonno è stato fucilato dai repubblicani nella Guerra Civile”. Così invece di parlare di lotta di classe e proletariato si preferisce il termine precariato o “pobretariado” (letteralmente: poverotariato); invece di sinistra-destra si parla di poveri-ricchi (arriba-abajo, letteralmente quelli in alto e quelli in basso); invece di oligarchia si parla di casta, in modo simile a Occupy Wall Street con il discorso del “We are the 99%”.
Ma il programma di Podemos è chiaramente di sinistra e anche i suoi contatti e la sua affiliazione nel Parlamento Europeo. Alle europee di maggio, difatti, Podemos ha appoggiato la candidatura di Tsipras e i cinque deputati eletti siedono nel Gruppo della Sinistra Europea. Lo stesso Alexis Tsipras, insieme all’eurodiputata del Bloco de Esquerda portoghese Marisa Matías, agli ambasciatori della Bolivia e del Nicaragua e a membri delle ambasciate del Venezuela, dell’Ecuador e dell’Argentina, del popolo curdo e palestinese, hanno partecipato all’Asamblea Ciudadana di Podemos della settimana scorsa. Non è affatto un caso: al di là del gruppo di Izquierda Anticapitalista la cui provenienza politica è evidente, Pablo Iglesias e i suoi più stretti collaboratori hanno alle spalle delle esperienze politiche e professionali nella sinistra spagnola. Formatisi nelle lotte del movimento no global e poi in quelle contro la guerra in Irak, Iglesias, Monedero e Errejón, docenti a contratto presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Complutense di Madrid, hanno lavorato come assessori politici di dirigenti di Izquierda Unida alle elezioni generali del 2011 (Monedero di Gaspar Llamazares e Iglesias dell’attuale segretario Cayo Lara) e di governi progressisti latinoamericani (la Bolivia e l’Ecuador per Errejón e il Venezuela per Iglesias e Monedero). Nell’autunno del 2013, quando poi si stava lavorando al progetto di Podemos, Iglesias fece un tentativo con IU per creare una candidatura di sinistra, ma non ci fu volontà politica da parte del partito di Cayo Lara.
E il programma presentato alle europee di maggio lo dimostra chiaramente: difesa del Welfare State, rafforzamento del settore pubblico, rinazionalizzazione dei settori strategici (telecomunicazioni, energia, alimentazione, trasporti, sanità, educazione…), fine del sistema economico spagnolo fondato sul mattone e sul turismo, riforma del sistema fiscale (con una maggiore tassazione delle grandi fortune, eliminazione della Sicav, nuova tassa del 30-35% sui beni di lusso…), lotta contro l’evasione fiscale, aumento del salario minimo, riduzione della giornata lavorativa a 35 ore, abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, reddito di cittadinanza, ampliamento della partecipazione dei cittadini alle scelte politiche, democratizzazione delle istituzioni come il BCE, rinegoziazione del debito pubblico…
Su quest’ultima questione – ma anche su altre, come le nazionalizzazioni – recentemente ci sono state delle prese di posizione più moderate: dalla cancellazione del debito pubblico si è passati a una proposta di una sua ristrutturazione ordinata e dall’esproprio delle grandi imprese da nazionalizzare si è passati a parlare di un modello che “regoli i settori strategici per favorire l’interesse generale”. In una recente intervista a “Diagonal”, Iñigo Errejón ha spiegato che “Se vuoi davvero una cancellazione del debito, se lo dici e lo annunci prima ottieni un movimento di capitali che te lo rende impossibile. Bisogna aprire un processo mediante il quale possiamo essere capaci di ristrutturare una parte del debito, di rinegoziarne un’altra, di cancellarne la parte illegittima e di organizzare un piano di pagamenti che la renda fattibile.” Allo stesso tempo, il partito ha incaricato l’elaborazione di un documento che servirà come base del futuro programma economico a due stimati economisti di sinistra, Vicenç Navarro e Juan Torres, autori di numerosi studi, tra cui l’apprezzato Hay alternativas scritto insieme al giovane deputato di IU Alberto Garzón e pubblicato nel 2011.
Anche su altre questioni, Podemos ha mantenuto un profilo basso come la questione monarchia-repubblica e la questione catalana. In entrambe è a favore di un referendum dove siano i cittadini a decidere. Nel caso catalano, non si è presa una posizione a favore o contro la consultazione del 9 novembre, ma si è dichiarato di essere a favore del “diritto di decidere” dei catalani, sottolineando la priorità delle questioni sociali su quelle nazionali. In un recente articolo pubblicato su “El País” firmato da Errejón e Gemma Ubasart, si spiegava che “In uno Stato plurinazionale, solo l’accordo e l’attrattiva dovrebbero essere il collante per ricostruire ponti, in uno scenario di costruzione della sovranità popolare in contrapposizione ai poteri delle minoranze e al diktat finanziario, assunto dalle caste catalana e spagnola la cui unica patria è la Svizzera”. E pare che il discorso abbia già fatto presa: secondo un recente sondaggio del CEO, Podemos sarebbe il terzo partito per intenzione diretta di voto in Catalogna, ottenendo 11 deputati alle elezioni regionali e 8 alle politiche generali (nella sola Catalogna), superando, e non di poco, la federazione rosso-verde di ICV-EUiA e avvicinandosi al PSC. Tenendo conto della situazione politica catalana e tenendo conto che in Catalogna Podemos disponde di meno circoli che nel resto della Spagna, il risultato è più che notevole.
Podemos ha fatto passi da gigante in questi primi dieci mesi di vita. Vedremo se riuscirà a mantenersi all’altezza delle aspettative generate nella società spagnola.
Da Barcellona, Steven Forti
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