"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Tempi interessanti 3
di Michele Nardelli
Nei giorni scorsi c'è stato lo sciopero generale nazionale promosso da Cgil e Uil, cui hanno partecipato in forme proprie anche Ugl e Sindacati di base. La piattaforma dello sciopero era contro le politiche sul lavoro del Governo Renzi (Jobs act) e sulla sterilizzazione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Ora, a prescindere dalle percentuali di adesione e dalla partecipazione per altro non oceanica alle manifestazioni, tutto è come prima.
Vorrei allora provare a fare qualche considerazione che si va ad aggiungere a quanto ho già scritto tempo fa su questo sito (“Articolo 18, un dibattito fuori dal tempo”).
Parto col dire che ritengo l'impostazione del governo Renzi tanto inefficace quanto sbagliata. A partire dall'analisi della crisi, considerata erroneamente congiunturale, il governo insegue la chimera di una ripresa economica che non ci sarà. Si mettono in campo politiche che avranno come unico effetto quello di redistribuire reddito dai lavoratori alle imprese e che queste non reinvestiranno nelle attività produttive ma, come hanno fatto in questi ultimi anni, finanziarizzando gli utili (compresi gli sgravi fiscali) ed investendo tutt'al più nelle produzioni gli aiuti pubblici.
Se la crisi è strutturale, è necessario interrogarsi:
sul rapporto fra investimenti finanziari e produttivi, laddove tassare i primi è anche condizione per far tornare conveniente investire nell'attività produttiva;
sulla qualità delle produzioni, il cui valore aggiunto è dato dall'innovazione e dalla ricerca, certo, ma soprattutto dall'unicità del prodotto in relazione alle vocazioni territoriali;
sulla natura del lavoro come fattore di coesione sociale e di partecipazione responsabile, ma anche come una parte della propria esistenza che non la esaurisce.
Occorre in altre parole mettere in discussione l'attuale modello di sviluppo (e di relazioni) in un contesto che, considerata l'interdipendenza, non può essere che sovranazionale (europeo, mediterraneo...) e territoriale, ovvero capace di dare valore alle caratteristiche e ai saperi regionali. Renzi e la sua compagine governativa non si pongono affatto l'obiettivo di mettere in discussione il modello di sviluppo che abbiamo fin qui conosciuto, bensì quello di deregolamentare il lavoro (strano modo di pensare l'uguaglianza fra garantiti e non garantiti) nella speranza di attrarre investimenti per un'economia che continua ad essere – tranne l'agroalimentare (e non sempre nemmeno questo settore) – senza qualità.
La seconda considerazione riguarda la mobilitazione sindacale e le sue forme di lotta. La questione dello Statuto dei lavoratori e dell'articolo 18 si trascina da molti anni, sicuramente da quel 23 marzo 2002 quando la più grande manifestazione sindacale del dopoguerra (eravamo in tre milioni al Circo Massimo, quasi un'insurrezione) coincise con la situazione di massimo isolamento del sindacato allora di Cofferati e con la sconfitta politica che ne seguì con il “Patto per l'Italia” del governo di centrodestra siglato anche da Cisl e Uil qualche mese più tardi. Ricordo il senso di frustrazione per quella situazione di impotenza (nella quale riapparve lo spettro del terrorismo con l'uccisione di Massimo D'Antona) e d'altra parte di consolidamento di quel blocco sociale che nel 2001 aveva riportato al governo il signore di Arcore.
Se la mobilitazione di allora non riuscì a difendere quel che si era conquistato negli anni '70 (reso possibile anche grazie all'esclusione dal tavolo delle trattative dei 3/5 dell'umanità), come immaginare di riuscirci oggi con la frammentazione del lavoro, la delocalizzazione divenuta ricatto permanente, la precarietà diventata sistema, la paura e quella porzione di umanità che rivendica il diritto ad avere e vivere come gli altri?
Bisognava interrogarsi su un modello di sviluppo oltremodo insostenibile, evitando di cadere nell'equazione “rilancio dei consumi/aumento dell'occupazione”; occorreva ricostruire un tessuto sociale (e culturale) oltre gli stessi confini nazionali, che sapesse parlare al lavoratore stabile come al precario; ripensare un mondo del lavoro nel quale per decenni anche in Italia si son fatte parti uguali fra disuguali ed insieme riflettere sui processi di crescente spaesamento; infine ricostruire le modalità di dialogo con il lavoro, ivi compreso l'interrogarsi sull'efficacia delle forme di lotta. Tutto questo corrispondeva alla necessità di un cambio di sguardo, di un confronto sociale capace di guardarsi dentro e non di cercare, come spesso avviene, il colpevole, dove ovviamente la responsabilità è sempre di qualcun altro.
Quel che è avvenuto invece, tanto nel mondo sindacale come nella società, è stato la riproduzione di un vecchio cliché, senza nemmeno comprendere che gli anni del berlusconismo avevano lasciato il segno anche e soprattutto sul piano culturale, che nella società a prevalere erano il corporativismo del “si salvi chi può” o del “non nel mio giardino”, quasi si potessero difendere delle posizioni a prescindere dai nuovi contesti interdipendenti. Una nitida fotografia di quel che è avvenuto in questo paese l'ha scattata il Censis qualche giorno fa con l'immagine delle sette giare (vedi il rapporto nella homepage).
Ascolto gli slogan, osservo le modalità, mi interrogo sulle reazioni e su ciò che rimane nella coscienza delle persone. Dieci anni fa era frustrazione, oggi è prevalentemente rancore. Verso un governo che mentre proclama il proprio rispetto per le piazze poi altro non sa dire che “non ci faremo condizionare dai sindacati, andremo avanti per la nostra strada”, come se la dialettica sociale e politica fosse una iattura; verso una politica che preferisce assecondare i sondaggi e cavalcare gli umori piuttosto che comprendere la realtà che cambia e cercare nuovi approcci; verso chi ti insidia nelle tue certezze (e nei tuoi privilegi, per relativi che siano) predisponendosi alla guerra, piuttosto che educarsi al fare meglio con meno. Immagine naïf, ma poi non molto lontana dalla predicazione di papa Francesco.
Intanto le borse vanno giù perché il prezzo del greggio è in caduta libera. Sembra un mondo alla rovescia quello dove, a fronte della limitatezza delle risorse, si misura il benessere con l'aumento dei consumi. Mi viene in mente una bella immagine dell'amico Luca Rastello: “piove all'insù”.
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