"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Presenti al nostro tempo

Un\'iniziativa del Forum nella Biblioteca dei Francescani a Trento

La relazione del presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani a conclusione di un'esperienza bella e stimolante durata cinque anni

Trento, 14 dicembre 2013

 

di Michele Nardelli

La pace oggi

 

(15 dicembre 2013) Solo qualche anno fa il movimento per la pace veniva descritto come una sorta di superpotenza mondiale. Non ho condiviso allora quella descrizione, ma dandola per buona solo per un attimo, oggi non ci rimarrebbe altro che prendere atto di come quella “forza” abbia mostrato tutti i suoi limiti. E non mi riferisco solo a quanto sia flebile la sua voce, pur in presenza di conflitti acuti, ma alla sua capacità di produrre analisi, riflessione, capacità di sguardo al di là della risposta alle emergenze. Ovvero nell'esprimere una propria agenda di lavoro attorno ai grandi temi del nostro tempo.

La stessa interessante esperienza dei “Forum sociali mondiali” ha mostrato alla lunga la propria inadeguatezza, trovandosi regolarmente a rincorrere gli avvenimenti piuttosto che esserne motore, mettendo in evidenza ideologismi e rituali di sempre. Ma soprattutto facendo emergere la profonda contraddizione di una dimensione globale che non riesce a connettersi con i processi reali e il loro tradursi in nuda vita.

 

Sempre nell'intento di descrivere il movimento per la pace si è parlato in passato di un fenomeno carsico, capace di grandi fiammate e di un lavoro sotterraneo lungo i mille rivoli dell'impegno quotidiano. Devo dire che nemmeno questa descrizione – a mio parere – riesce a fotografare una realtà che invece riflette ed è parte della crisi dei corpi intermedi, una crisi riconducibile da un lato all'incapacità di mettere a fuoco i processi di cambiamento (anche per effetto di categorie interpretative ormai largamente inadeguate a descrivere un tempo nuovo) e dall'altro a processi di autoreferenzialità dovuti alla difficoltà di ricambio e di trasmissione/elaborazione delle esperienze.

 

Si può dire? La pace è in crisi. Non parlo solo dei pacifismi, nelle loro molteplici espressioni. Le vicende che stanno dilaniando sul piano nazionale quel che rimane della Tavola della Pace possono descrivere questa situazione. Se l'impegno per la pace si riduce ad un rituale declamatorio di parole che non comunicano più nulla, alla celebrazione di giornate internazionali per diritti inesigibili, ad una marcia alla quale si partecipa per nascondere la propria solitudine quotidiana, tutto questo dovrà pur farci riflettere. Se i luoghi del pacifismo sono spesso ambiti che esistono in funzione di destini (e frustrazioni) personali (lasciando stare le forme patologiche di attaccamento ai ruoli) e dove sono solo le emergenze a rianimare la capacità di proposta, allora la malattia è grave ed è piuttosto triste che non se ne parli. Del resto, le emergenze hanno da tempo preso il posto del pensiero, dell'indagine accurata dei conflitti, della capacità di abitarli e di elaborarli.

 

Quest'analisi sferzante non vuole affatto nascondere che, al tempo stesso, ci sono i luoghi che cercano di interpretare e declinare l'impegno per la pace in forme nuove ed originali. Penso ad esempio alle esperienze che si propongono un diverso rapporto con le risorse a partire dal concetto di limite, alle comunità del cibo di Terra Madre, alle esperienze di interposizione nonviolenta nelle situazioni acute di conflitto, all'emergere di una rete diffusa di cooperazione fra territori basata sul concetto di relazione piuttosto che di aiuto ed altro ancora. Esperienze importanti, che però ancora fanno fatica ad uscire dal terreno della testimonianza e diventare pensiero comune.

 

Ma non è solo questo. La pace è in crisi anche come idea di relazioni fra gli uomini e le donne di questo pianeta. Nell'approssimarsi del traguardo dei nove miliardi di esseri umani sulla Terra, il sentimento più diffuso è la paura del futuro e a prevalere sembrano gli egoismi piuttosto che la capacità di interrogarsi su un nuovo umanesimo. E così nella percezione più diffusa “pace e diritti umani” diventano parole rituali, buone per le anime belle ma incapaci di offrire risposte all'insicurezza e a fronte di una realtà che si va sempre più cannibalizzando. A fronte della necessità di nuovi paradigmi, la postmodernità assume i caratteri del “tutti contro tutti”, del “non nel mio giardino”, del “si salvi chi può”.

 

Sembra averne la percezione Papa Francesco che nella sua “Evangelii Gaudium”parla dell'iniquità che genera violenza. «Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’iniquitànella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’iniquità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. (…) I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenzache la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. (…)»

 

Il suo “Si vis pacem, para iustitiam” (“Se vuoi la pace, prepara la giustizia”) non è diverso dal principio ispiratore che diede il là, nel lontano 1991, all'istituzione del Forum trentino per la Pace e i Dritti Umani.

 

 

Vent'anni fa. La LP 11/1991

 

 

Una legge che oggi, a dispetto del tempo, appare in tutta la sua lungimiranza. Vi si diceva (vi si dice) che la pace si costruisce nella cultura e nei comportamenti delle persone, come del resto nelle politiche di governo di una comunità e che per questo non può essere lasciata alla spontaneità, ma richiede un investimento in conoscenza e formazione, nella ricerca e nell'elaborazione.

 

In altre parole, la pace non può essere appannaggio soltanto dei pacifismi ma patrimonio di un'intera comunità che se ne prende cura, che opera nella prevenzione della degenerazione violenta dei conflitti, che lavora affinché essi possano evolvere in forme creative e nonviolente. Che, più in generale, s'interroga sul carattere sostenibile delle proprie politiche perché è nell'insostenibilità dei modelli di sviluppo che crescono le condizioni delle guerre in termini di ingiustizie e disuguaglianze. Non solo tenere desta l'attenzione, denunciare i pericoli, sensibilizzare l'opinione pubblica – dunque – ma indagare le guerre e studiare la pace.

 

Da qui la creazione di un organismo inedito, che rappresentava (e rappresenta) mondi diversi impegnati su questo terreno: istituzioni, fondazioni, università, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative. Esperienza unica nel suo genere in Italia e anche sul piano internazionale, incardinata non casualmente sull'assemblea legislativa che avrebbe dovuto farne un suo fiore all'occhiello.

 

Dall'approvazione in maniera pressoché unanime della LP 11/91 sono passati più di vent'anni. Nel 2011, al Forte di Cadine riaperto per l'occasione, abbiamo tentato un bilancio di questo organismo nel suo attraversamento di un tempo che ha visto cambiare profondamente il contesto globale. Anni nei quali la guerra è tornata prepotentemente alla ribalta, fra lo scricchiolare del diritto internazionale e delle sue istituzioni ed il riemergere di una sorta di “diritto naturale” nel ricorso alla forza.

 

Non è mia intenzione riproporre oggi quelle stesse domande circa il ruolo avuto dal Forum, ma ciò non di meno uno dei nodi cruciali che ponemmo in quell'occasione non ha ancora trovato una risposta univoca. Che poi risponde all'interrogativo circa la capacità del Forum di rappresentare per la comunità e le sue istituzioni un punto di riferimento autorevole e riconosciuto sui temi della pace, dei diritti umani e più in generale del nostro rapporto con il futuro dell'umanità. Perché questa avrebbe dovuto essere la peculiarità del Forum, un monitoraggio permanente sulla promozione della cultura della pace in Trentino.

 

Ancora oggi è difficile dire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto, perché se è vero che l'azione del Forum non sempre ha avuto l'attenzione che avrebbe meritato da parte di una politica spesso distratta e priva di visione, è vero altresì che il Trentino è stato ed è considerato anche su questo piano terra avanzata di ricerca-azione.

 

Non voglio essere reticente. Non nascondo la mia delusione per come le istituzioni provinciali si sono rapportate con il Forum, quasi si trattasse di un ingombro ideologico del passato. Come se le cose della politica avessero ben altro cui pensare. Tutt'al più un richiamo morale, distante dai problemi veri del nostro presente. Buono per la retorica delle ricorrenze, fastidioso nel suo porre domande scomode sulla coerenza delle politiche.

 

Mi sono anche chiesto più volte se questo fosse dovuto al fatto che a presiedere il Forum fosse un rappresentante dell'assemblea legislativa provinciale espressione della maggioranza di governo. Devo però riconoscere che questa distanza tendeva a superare i confini degli schieramenti politici, ponendo il tema di grande rilievo di quanto la cultura della pace abbia cittadinanza nel pensiero come nell'azione politica e di governo.

 

 

Un cambio di passo, come bilancio

 

 

Per questa ragione abbiamo posto al centro del lavoro del Forum la proposta di un cambio di passo: nell'indagare le parole, ovvero la necessità di riempire di nuovi significati parole come pace, solidarietà, sostenibilità, accoglienza, interculturalità...; nell'indicare un'agenda di lavoro che ci aiutasse ad essere “presenti al nostro tempo”, rifuggendo dalla logica delle emergenze e delle scadenze ma dotandoci in prima persona di sguardi ed approfondimenti che ci aiutassero a comprendere gli scenari del presente e del futuro.

 

Era quel “cambio di passo” che mi ero proposto nel difficile passaggio che portò alla mia elezione alla presidenza del Forum: un intento esigente ed impegnativo e forse anche per questo non scontato se non apertamente avversato.

 

E' quello che abbiamo provato a fare attraverso i percorsi tematici annuali sulla “cittadinanza euromediterranea”, sulla cultura del limite e sulla necessità di elaborare “il secolo degli assassini”. Oppure nell'avviare una verifica sui temi al centro dell'attività di Millevoci che ha portato alla elaborazione del “Documento di indirizzo sull'educazione alla cittadinanza interculturale”. O, ancora, nel proporci di mettere a fuoco il legame fra mafie, traffici e violenza attraverso l'avvio di un percorso di “winter school” in collaborazione con Libera e Rai Storia di cui è in preparazione la seconda edizione.

 

Non è compito di questa mia relazione tracciare un quadro dettagliato di quel che si è fatto in cinque anni (che pure trovate nella corposa documentazione proposta per questa assemblea), ma un bilancio – quand'anche essenziale – è d'obbligo.

 

Quel che però vorrei cercare di mettere in rilievo è il profilo del nostro lavoro, nel tentativo di declinare la pace e i diritti umani in forma non scontata ed originale.

 

Abbiamo così associato la pace al pane, al racconto di storie come quella di una famiglia musulmana che da mille anni governa il luogo più sacro della cristianità come il Santo Sepolcro, ad una delle creature di Fabrizio De Andrè (quell'anonimo marinaio genovese che divenne Sinan Pascià) o alla Cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz, alla poetica sul limite di Giacomo Leopardi o di Andrea Zanzotto, al racconto del Novecento attraverso le cartoline dai luoghi chiave del secolo breve, fino ad interrogarci sui lati più profondi ed inconfessabili della guerra.

 

Abbiamo, nel far questo, incontrato la primavera araba, quasi da sentircene protagonisti, con l'orgoglio di “essere sul pezzo” e al tempo stesso con il rammarico di non avere (come Forum) i mezzi per interagire con una rivoluzione democratica e nonviolenta che richiedeva sguardi nuovi sul piano delle forme partecipative e di autogoverno, dello sviluppo locale e della cooperazione di comunità.

 

Ci siamo trovati, per una volta ancora, a dover fare i conti con un'Europa che non sa riconoscersi, che non ha elaborato la propria storia (dagli attraversamenti che l'hanno resa possibile alle tragedie che l'hanno dilaniata), che non ha saputo comprendere quel che la fine del Novecento le avrebbe riservato, né imparare dall'assedio della sua Gerusalemme, quando volse il proprio sguardo altrove. Tanto da diventare arida e senza quell'anima sociale che ne avrebbe potuto costituire l'identità.

 

L'abbiamo raccontata, questa Europa. Guardandola con gli occhi di chi cercava all'orizzonte un approdo, attraverso un mare che ha preso dapprima le sembianze di un muro eretto a difesa di stili di vita non negoziabili e poi del filo spinato dei centri di detenzione per il reato di esistere. Oppure dal particolare punto di osservazione del suo cuore balcanico che ci siamo dati dodici anni fa e che da quel momento non ha smesso mai, nemmeno per un giorno, di trasmettere – attraverso un servizio riconosciuto in tutto il mondo – immagini e analisi che ci hanno permesso di sentirci orgogliosamente europei. Grazie a OBC.

 

Abbiamo avviato cantieri come la “Carta per l'Autonomia del Tibet” o come “Afghanistan 2014” per cimentarci nel complesso lavoro di ricostruzione di un tessuto di pace che non si esauriva nella denuncia delle responsabilità dei potenti. E che provava ad interpretare quella diplomazia dei popoli che sa arrivare dove quella degli Stati ha spesso fallito.

 

Ci siamo preoccupati che tutto questo fosse sorretto da un solido lavoro di preparazione con la realizzazione di una scuola di formazione (mi riferisco al CFSI di cui il Forum è soggetto costitutivo) che, in sinergia con le principali istituzioni del nostro territorio, coinvolge ogni anno mille persone, trasformando un luogo prima abbandonato come l'ex convento degli Agostiniani in un punto di attrazione nazionale ed internazionale.

 

Nel cercare un profilo diverso della pace e dei diritti umani non abbiamo comunque trascurato le battaglie più tradizionali del movimento come ad esempio quella contro le spese militari, tanto è vero che l'articolazione territoriale della mobilitazione contro gli F35 l'abbiamo avviata in Trentino insieme ad Unimondo con quelle grandi lettere che sono diventate un po' il simbolo dell'impegno contro l'acquisto dei cacciabombardieri. Così come è giusto ricordare che la prima Regione italiana ad esprimersi contro gli F35 è stata la nostra.

 

Ma proprio su questo terreno dobbiamo dirci con altrettanta franchezza che se questo sciagurato programma ha subito un qualche ridimensionamento (che forse potrebbe preludere ad un'archiviazione dopo l'emendamento sulla legge di stabilità approvato giovedì scorso dalla Commissione Bilancio della Camera) è più per l'insostenibilità finanziaria in cui versa il paese che non per un ripensamento profondo sul ruolo degli eserciti nazionali e sulle spese militari o di converso per la mobilitazione del movimento per la pace. Misurando anche su questo piano la sua crisi.

 

Ci siamo altresì interrogati anche sugli strumenti attraverso i quali far conoscere e promuovere il Forum. Nonostante esista da oltre vent'anni devo ammettere che ho incontrato un sacco di persone che ne ignoravano l'esistenza. Un gap che probabilmente non siamo riusciti ancora a superare, ma di certo non si può dire che con le poche risorse a disposizione non ci abbiamo provato. Penso al sito internet che abbiamo rinnovato a più riprese, alla pagina facebook che conta 1.772 amici, alla presenza costante sulle pagine di Consiglio Cronache, ai manifesti che hanno accompagnato i nostri percorsi annuali, a quella vera e propria impresa culturale rappresentata dal Café de la Paix, un progetto che stava da anni nel cassetto dei desideri e che ora è diventato realtà (insieme ai suoi 12.000 soci).

 

 

Un ringraziamento e un auspicio

 

Tornando al nostro lavoro, non so quanto questa diversa impronta sia stata percepita e compresa, ma una cosa la posso dire: ho avuto spesso in questi cinque anni la percezione che fra le molte persone che hanno partecipato agli oltre duecento eventi promossi nell'ambito del Forum di cogliere una sorta di stupore verso un modo inedito di affrontare i temi della pace. Se questo fosse vero anche solo in parte, allora potremmo dire che l'obiettivo di far uscire la pace dalle proprie stanche ritualità è possibile.

 

Se questo cambio fosse stato avvertito anche dalle nostre istituzioni forse avremmo potuto anche andare oltre, nel far diventare l'orizzonte della pace come un discrimine permanente nell'azione di governo, declinando questa parola in quelle di sobrietà, limite, cittadinanza, responsabilità, conoscenza, interdipendenza. Su questo, inutile nascondercelo, c'è ancora molto da lavorare.

 

So che nel dire queste cose c'è il rischio di apparire un po' naïf. So anche di essere in buona compagnia. Per questo vorrei ringraziare tutte le realtà che ci hanno aiutati a farci sentire meno soli. Le associazioni e le istituzioni del Forum, in primo luogo. Ma anche le tante persone che hanno messo a disposizione tempo e competenze. Scrittori, ricercatori, artisti, testimoni privilegiati... che ci hanno accompagnato con le loro parole nei nostri percorsi: vorrei qui ricordare Carmine Abate, Oliviero Alotto, Tonino Arcadu,Mourad Ben Cheikh, Paolo Berizzi, Roberta Biagiarelli, Michele Biava,Mario Boccia, Fabio Bucciarelli, Vinicio Capossela, Alessandra Clemente, Antonio Colangelo, Gherardo Colombo, Ali Hussain Dauod, Piero Del Giudice, Massimiliano De Santis, Valter Dondi, Nevina Dore, Michela Embriaco, Branka Petric e Uliks Fehmiu, Roberto Fasoli, Cecilia Ferrara, Kanita Focak, Goffredo Fofi, David Gerbi, Michele Lanzinger, Goran Levi, Rebiya Kadeer, Dževad Karahasan, Adel Jabbar, Maja Husejic,Giulio Marcon, Predrag Matvejevic, Luca Mercalli, Gabriele Mirabassi, Razi e Sohelia Mohebi, Ugo Morelli, Nevena Negojevic,Wajeeh Nuseibeh, Giangiacomo Ortu, Stefania Pellegrini, Alberto Perduca, Riccardo Petrella, Ilaria Ramoni, Ali Rashid, Ennio Remondino, Emanuela Rossini, Melita Richter, Paolo Rumiz, Isaia Sales, Anna Sarfatti, Paolo Sartori, Božidar Stanišić, Ivan Tanteri, Gianmaria Testa, Marisa Zanzotto, Aldo Zappalà e tanti altri che certamente mi sfuggono.

 

Nello scorrere questi nomi mi rendo conto di quanto lavoro... Per questo vorrei ringraziare in particolare Luisa Zancanella, Martina Camatta, Francesca Zeni, Francesca Bottari, Francesco Iorio, Anna Frattin e Federico Zappini, persone con storie e età molto diverse dalla mia ma con le quali si sono realizzate sintonie speciali.

 

 

Il cambio di passo che abbiamo cercato di imprimere in questi anni richiederebbe di essere proseguito. Ci ha permesso, come scriveva Jeanne Hersch, di essere “presenti al proprio tempo”, che non è poco. Mi piacerebbe che continuassimo ad esserlo.

 

 

 

 

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