"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Ma è la guerra la soluzione?

Matite

 

di Ugo Morelli

 

Di fronte ai terribili eventi francesi e alla distruttività del terrorismo, che ci riguardano direttamente, le reazioni, nella maggior parte dei casi, sono improntate alla esibizione di superiorità della nostra cultura che chiamiamo civiltà in modo unilaterale, e alla guerra come risposta. A parte la considerazione sull’inefficacia di ogni guerra organizzata per combattere il terrorismo, viene da chiedersi se non sia il caso di mettersi almeno in una certa misura in discussione e di assumere una posizione che non neghi il conflitto ma provi ad elaborarlo.

 

Distinguere tra conflitto e guerra è quanto mai necessario proprio di fronte a situazioni come quella che stiamo considerando. Il conflitto è la ricerca della convivenza delle differenze, di tutte le differenze. La guerra è antagonismo; è “mors tua vita mea”. Che convenga distinguere è dimostrato dal fatto evidente che ogni azione di guerra genera il terrorismo anziché riuscire a combatterlo. L’intervento militare sulla Libia ha prodotto una ottantina di eserciti, ognuno dei quali va per conto proprio ed è in guerra l’uno contro l’altro, con la conseguente distruzione del paese e una situazione del tutto fuori controllo nelle relazioni internazionali.

 

Tutti ricordiamo che cosa hanno prodotto gli interventi militari in Iraq o in Afganistan in termini di generazione di reazioni terroristiche: veri e propri terreni di coltura del terrorismo da cui nasce lo “Stato islamico”. La distinzione tra guerra e conflitto implica che, condannata ogni violenza distruttiva, ci si interroghi sulle ragioni degli eventi e, soprattutto, sulle ragioni degli altri. "Se vuoi evitare la guerra e la distruzione gestisci il conflitto e non negarlo" ha sostenuto Luigi Pagliarani

 

Siamo di fronte a un conflitto identitario, uno dei più difficili da gestire, ma non c’entra niente la guerra di civiltà. Esiste una ragione nella tradizione islamica così come esiste nella tradizione illuministica. Con differenze importanti, certo, ma che non possono essere trattate con una posizione di superiorità da parte di nessuno. A meno che lo scopo non sia quello di un antagonismo distruttivo. Se quell’antagonismo produce terrorismo, allora, nel gioco del vincere o perdere, a perdere non è certo il terrorismo.

 

Un’azione come quella contro Charlie Hebdo può essere ripetuta all’infinito e affrontarla in chiave di guerra è semplicemente autodistruttivo. Questa logica antagonistica porta solo alla guerra totale. E non basta il buon senso come non basta dire che bisogna evitare l’islamofobia. Non è difficile comprendere le reazioni emotive e a caldo: ma una volta condannata la distruttività bisogna andare oltre e agire per ridurre, prosciugare, le condizioni e il terreno di coltura del terrorismo. Chi aiuta ad esempio l’Islam moderato in Europa? Accettare il terreno dello scontro di civiltà significa alimentare la guerra e non cercare le vie della convivenza e della cooperazione.

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da stefano fait il 14 gennaio 2015 22:44
    "Il tema che già si è imposto nei discorsi politici è la guerra, qualunque cosa questa parola possa significare nella situazione in cui ci troviamo. Siamo solo all’inizio, perché su questa parola si giocano interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero siamo come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta porre la domanda per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso. Serve solo a mobilitare irrazionalmente l’opinione pubblica interna, per ragioni di lotta politica, come stanno facendo i partiti e i movimenti nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono con la promessa che «la guerra» sia la risposta risolutiva…Il primo effetto d’una guerra dichiarata genericamente contro l’Islam sarebbe di compattare in un unico fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. Sarebbero questi le prime vittime: atti di violenza nei loro confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza come ritorsione. Odio su odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’islamismo presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura…Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra, ma controlli, indagini e azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di polizia c’è la differenza che le prime sono rivolte indifferenziatamente contro «il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i delinquenti, le loro organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori".
    Gustavo Zagrebelsky, “Le risposte dell’Occidente oltre lo scontro di civiltà”, Repubblica, 12 gennaio 2015
    *****
    "La lotta al terrorismo si fa con un dialogo accompagnato da una politica di aiuti, con rapporti economici e politici quotidiani. Non si vince con azioni militari. L’opzione bellica non ha avuto e non ha mai senso. Non c’è un caso, un solo caso, dove abbia portato risultati. È stato così in Afghanistan e in Iraq. E sarebbe così in Libia: l’emergenza libica deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze libiche a sedersi a un tavolo allargato. E questa offensiva diplomatica deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni e favorita dall’Europa e dall’Onu".
    Romano Prodi, Prodi: «L'Is? È frutto della guerra», Avvenire, 13 gennaio 2015
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