"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Antonio Floridia *
(21 gennaio 2015) Un sistema elettorale non è solo un sistema di regole inscritto all'interno di un assetto istituzionale: è un meccanismo che, nel tradurre i voti in seggi, condiziona anche le aspettative degli attori, le logiche che guidano le loro scelte. E che può orientare anche la futura evoluzione del sistema politico, anche quando - ed è un caso frequente dal gioco strategico emergono effetti perversí e imprevisti. Nel valutare i possibili ipotesi di riforma, quindi, non esistono solo criteri di costituzionalità da rispettare. Un processo di riforma elettorale si presenta sempre come un gioco strategico in cui i vari attori, più o meno consapevolmente, si fanno guidare anche da un'idea, o da una serie di aspettative, sul futuro assetto del sistema politico e sul ruolo che ciascuno di essi aspira a recitare.
Ebbene, uno dei luoghi comuni più triti che accompagnano la discussione sull'Italicum, è quello secondo cui il nuovo sistema elettorale porterebbe a confermare, e anzi rafforzare, la «logica bipolare» e anzi potrebbe portare ad un assetto «bipartitico». Un altro luogo comune è che poi il nuovo Italicum taglierebbe alla radice il famigerato «potere di ricatto» dei piccoli partiti. Nulla di più fantasioso e arbitrario.
Com'è noto, l'Italicum-bis prevede che il premio sia assegnato alla lista più votata, e non più alla coalizione; che la soglia per evitare il ballottaggio sia fissata al 40% e che le soglie per le liste siano abbassate, per tutti, al 3%. Quest'ultima, in particolare, sembra una modifica positiva, ma occorre guardare alla logica complessiva del sistema che viene così disegnato. E occorre anche guardare alla dinamica strategica che queste regole potranno sollecitare.
Immaginiamo uno scenario, che allo stato peraltro sembra quello più probabile, con un partito-pivot che si collochi intorno al 35%: essendo razionale l'obiettivo di evitare un sempre rischioso ballottaggio, questo partito sarà indotto a contrattare preventivamente un accordo con quei partiti, ma soprattutto gruppi e notabili locali, che siano in grado di dare quell'apporto di voti sufficiente a raggiungere il 40%.
Di converso, questi ultimi faranno pesare pienamente il loro potere di coalizione: il loro famigerato «potere di ricatto» non scomparirà d'incanto, ma anzi si eserciterà già in questa fase preliminare, e l'oggetto dell'accordo non potranno che essere posti in lista o futuri incarichi di governo. Invece di coalizioni «piglia-tutti» - come accadeva con la legge Calderoli -, avremo una lista omnibus, con un gran numero di candidati «imbucati», espressione non solo e non tanto di «piccoli partiti», ma di potentati locali che contrattano il loro sostegno.
Ed è ovvio chiedersi quale «governabilità» potrà mai essere assicurata da un mega-gruppo di maggioranza, formalmente eletto sotto l'insegna di un partito, ma in realtà esso stesso un partito-ombrello che copre le più svariate componenti: perfetta espressione del nuovo modello politico-aziendale che si sta affermando, quello del partito in franchising. Si aggiunga la clausola delle candidature plurime (ben dieci) e il quadretto è completato: il gioco delle micro-contrattazioni potrà essere anche giocato sul tavolo post-elettorale delle opzioni.
Si dirà: ma il partitone centrale può sempre dignitosamente rifiutarsi di stare al gioco, e rischiare il ballottaggio. Già, ma cosa accade tra il primo e il secondo turno? Non essendo previsti apparentamenti formali (che comporterebbero il prezzo di una cessione di seggi agli alleati), ancora una volta l'oggetto della trattativa diviene oscuro o segreto (o fin troppo facilmente immaginabile). Così, ad esempio, una lista che, avendo superato il 3%, fa parte formalmente delle minoranze, potrà contrattare i propri voti al ballottaggio in cambio di una futura partecipazione al governo. E la rappresentanza delle «vere» minoranze, in tal modo, sarà compressa. È singolare che, da una parte, negando la possibilità di accordi politici alla luce del sole tra il primo e il secondo turno, si biasimi «il mercato delle vacche» che ne deriverebbe; e, dall'altro, si creino le condizioni perché questo «mercato» si svolga invece in modo sotterraneo e in forme pubblicamente impresentabili.
Insomma, quello che si configura è un assetto funzionale ad una logica neocentrista, aperta alle più scandalose dinamiche trasformiste: un partito-pivot centrale (un corpaccione neo-centrista) a cui si contrappongono, da destra e da sinistra, sopra e sotto una serie di gruppi e partiti medio-piccoli, una serie di minoranze frantumate, destinate a restare ininfluenti o, probabilmente (almeno alcune di esse), ben disposte a contrattare (prima, durante e dopo le elezioni) il loro posto al sole.
Insomma, oltre ai più volte ricordati vulnus al principio della rappresentanza, questo sistema può produrre effetti perversi di cui i suoi cantori non sembrano ben rendersi conto. Non è in discussione la, «disproporzionalità» fisiologica che un sistema elettorale può sempre produrre (purché fondata su condizioni che assicurino, in partenza, il «peso eguale» del voto, come nei collegi uninominali maggioritari), ma la completa distorsione del processo politico ed elettorale che ne deriva: immaginiamo solo come potranno configurarsi, in presenza di un vincitore annunciato, la fase di formazione delle liste, e poi la stessa campagna elettorale, la qualità del dibattito politico. Ci sarà da sorprendersi, poi, se la partecipazione elettorale continuerà a sprofondare?
Infine, c'è da chiedersi su quale presupposto si fondi questo scriteriato disegno di riforma. Tutto nasce da un vincolo che sembra intangibile: ovvero, pretendere che «la sera stessa delle elezioni» si possa proclamare un vincitore. Si lancia un anatema contro la possibilità che, in parlamento, dopo le elezioni, si possa aprire una legittima, e trasparente mediazione politica; ma, in realtà, si apre la via alle peggiori negoziazioni. E non si può non notare un paradosso: in fondo, su cosa si fonda l'attuale governo, se non su una maggioranza formatasi e raccolta nelle aule parlamentari, dopo le elezioni? Salvo un piccolo dettaglio: che i numeri su cui si basa sono del tutto arbitrari, creati artificialmente da un sistema elettorale che aveva tutt'altra logica. Non sarebbe il caso di tornare alla normalità di una democrazia parlamentare (e scegliere un normale sistema elettorale, senza tutti i marchingegni su cui ci sta aggrovigliando)?
* Antonio Floridia è presidente della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali)
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