"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Quella che segue è una delle due post-fazioni all'ultimo lavoro di Micaela Bertoldi "Intrecci. Stralci di narrazioni familiari sullo sfondo della 'piccola' Europa", edito dalla Fondazione Museo Storico del Trentino e presentato nei giorni scorsi di fronte ad un folto pubblico alla Biblioteca comunale di Trento. S'intitola "La piccola Europa”, nell'intento di ricostruire la cornice storica e, perché no?, geografica che faceva da sfondo alle "piccole" storie di vita di cui racconta Micaela nel suo prezioso libro.
di Michele Nardelli
«Questo non ha nulla a che vedere con la religione degli austriaci, caro il mio muderis-efendija, è piuttosto una questione di interessi. Loro non scherzano e non perdono tempo nemmeno quando dormono,sono sempre attenti ai loro affari. Adesso non è ancora tutto chiaro ma lo sarà tra un mese o un anno. Diceva bene il defunto Šemsi-bey Branković: “Le mine degli austriaci hanno una lunga miccia”. La numerazione delle case e il censimento degli uomini servono, almeno a me così sembra, per mettere nuove imposte o richiamare gli uomini per qualche corvée o per la guerra; magari per tutte e due le ragioni...».
Ali-hodža, il vecchio imam di Visegrad nel romanzo di Ivo Andrić “Il ponte sulla Drina”[1]
Alcune delle pagine più belle di Ivo Andrić nel romanzo “Il ponte sulla Drina” sono quelle in cui il premio Nobel per la letteratura 1961 narra lo stupore degli abitanti della cittadina di Visegrad, lungo il confine che separava già allora la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, nel vedere all'opera gli austriaci che avevano da poco sottratto quel territorio alla dominazione ottomana. Gli abitanti della cittadina bosniaca a grande maggioranza musulmana proprio non capivano il significato del lavoro con il quale i funzionari austroungarici numeravano sistematicamente ogni cosa, le case e le persone in primo luogo, pur intuendone i cattivi presagi. Immagini che ci aiutano a comprendere lo spirito del tempo, quel fervore modernizzante che caratterizzava l'impero asburgico, un territorio multinazionale che si estendeva attraverso l'Europa e il cui nome ufficiale era “Die im Reichsrat vertretenen Königreiche und Länder und die Länder der heiligen ungarischen Stephanskrone”, ovvero “I regni e le terre rappresentate nel concilio imperiale e le terre della corona di Santo Stefano”.
Quello di cui stiamo parlando era il secondo paese europeo per estensione dopo l'impero russo, con la sua capitale, Vienna, che contava alla vigilia della Grande Guerra 2.200.000 abitanti (la terza città europea del tempo), con il suo grande fiume, «un mondo dietro le nazioni» che nel suo attraversamento dell'Europa mostrava la forza e il valore paradigmatico di quel rivolo d'acqua dalle origini incerte che nella storia si è andato contrapponendo al Reno, il fiume della purezza germanica dei nibelunghi[2]. Due idee diverse di Europa, che abbiamo conosciuto tragicamente nel Novecento. Con le sue undici lingue ufficiali e ventidue parlate, dodici etnie come emerse dal censimento del 1910 (tedeschi, 23,9%; ungheresi, 20,2%; cechi, 12,6%; polacchi, 10,0%; ruteni (ucraini), 7,9%; rumeni, 6,4%; croati, 5,3%; slovacchi, 3,8%; serbi, 3,8%; sloveni, 2,6%; italiani, 2,0%; bosniaci, 1,2%) e, infine, con le sue cinque religioni riconosciute (cattolica, protestante luterana, musulmana, ortodossa, ebraica)... l'impero asburgico si configurava come una “Piccola Europa”.
Noi oggi siamo portati, sbagliando, a considerare l'Europa con lo sguardo rivolto ad occidente, ma fra il XIX e il XX secolo la divisione che venne poi suggellata nel corso del Novecento dalla guerra fredda (e che aveva nel muro di Berlino il suo tragico simbolo) non era così marcata e le città dell'impero come Budapest, Praga, Zagabria... o altre ancora come Belgrado, Bucarest, Varsavia erano (e sono) grandi città europee. Onda lunga di quel cambio di prospettiva che affonda le sue radici, almeno sul piano simbolico, in quella notte fra il 2 e 3 agosto 1492 quando – con la scadenza dell'editto che portò alla cacciata degli ebrei e dei musulmani dall'Andalusia e la partenza da Palos di Cristoforo Colombo – venne spezzato il filo che ancora ci univa all'oriente dal cui sapere avevamo attinto per secoli quando il centro del mondo era dall'altra parte del Mediterraneo[3].
“Piccola Europa” era anche l'espressione che non a caso veniva usata per descrivere quei territori di confine sottratti alla dominazione turca e ripopolati con le migrazioni provenienti dalle aree periferiche (e povere) dell'impero, dove si parlavano i più diversi idiomi di origine. Una di queste era la Krajina occidentale, intorno alla cittadina di Prnjavor. Vi arrivarono con i loro carri dalla Galizia e dalla Bucovina, dalla Transilvania e dal Trentino, come alla ricerca di una terra promessa. Provenivano della Valsugana e della riva destra dell'Adige trentino dopo le grandi alluvioni del 1882 e ancora oggi, nelle case di Stivor o di Mahovljani, di quelle origini si avverte la parlata. Di quelle stesse migrazioni è figlio lo scrittore Aleksandar Hemon: nel suo splendido romanzo, “Il progetto Lazarus”[4], racconta gli intrecci di quel secolo che nasce e muore a Sarajevo, tanto intensi da renderlo così unico e vulnerabile.
Proprio il censimento dell'impero austroungarico del 31 dicembre 1910 rappresenta una chiave di lettura di come si è andata costruendo questa unicità. Quel censimento, che venne realizzato registrando la “umgangssprache”, ovvero la lingua parlata in casa e in strada, ci racconta dei processi costitutivi dell'Europa proprio attraverso le migrazioni, i pogrom, le conquiste... seguendo le rotte commerciali e marittime del tempo o gli esiti delle guerre. Tanto che nel censimento del 1910 a Sarajevo emergeva un dato sorprendente: la terza lingua parlata dal 13,4% della popolazione nella Gerusalemme dei Balcani (dopo il serbo-croato e il tedesco) era lo spagnolo, a testimoniare la significativa presenza degli ebrei sefarditi (Sefarad era il nome che davano gli ebrei alla Spagna), cacciati con l'editto del 1492 e che approdarono a Sarajevo dopo un lungo peregrinare attraverso il Mediterraneo. Gli antichi manoscritti di quella cultura sopravvissero alle guerre mondiali, all'occupazione tedesca e alla devastazione della shoah, nascosti e custoditi con orgoglio dalla comunità musulmana di Sarajevo, ma non ai bombardamenti dei criminali che assediarono quella città nel 1992 mirando proprio alla distruzione di quella straordinaria storia europea che la Biblioteca nazionale e l'Istituto Orientale di Sarajevo custodivano. Niente di arcaico, semplicemente l'altra faccia di quel che si sarebbe dibattuto di lì a breve nella stesura del Trattato costituzionale dell'Unione Europea a proposito delle radici culturali dell'Europa.
Interessante notare come il riconoscimento delle minoranze dell'impero avvenisse anche nella composizione dell'imperiale e regio esercito austroungarico. Aveva visto bene Ali-hodža, il vecchio imam di Visegrad, nell'immaginare che il fervore dei funzionari austriaci avesse a che fare prima o poi con una cartolina precetto: la Bosnia Erzegovina fornì all'esercito asburgico 24 battaglioni di fanteria e uno di Feldjager pesantemente impegnati fra l'altro sul fronte italiano. Ne sono traccia i cimiteri della prima guerra mondiale, nelle tombe dei caduti come nelle sezioni musulmane degli stessi. E lo testimonia il fatto che fra i soldati il diritto alla preghiera era esercitato per tutte le confessioni religiose riconosciute, tanto è vero che a nord di Trento, nell'area che a Gardolo ospitava la caserma dell'impero, c'era secondo le testimonianze degli anziani del borgo una piccola moschea in legno (tipica dell'islam bosniaco). Viene da sorridere nel pensare alle polemiche dei giorni nostri attorno alla legittima richiesta di realizzare un luogo di culto per i nuovi trentini di fede islamica e di come il cattolicissimo impero austroungarico fosse un secolo fa più multiculturale di tanto buio che oggi attraversiamo.
Era un passaggio di tempo “maledettamente interessante”, per usare la bella espressione di Hannah Arendt, quello che si apriva davanti all'Europa, nel quale le celebrazioni per il giubileo di Francesco Giuseppe si sarebbero rapidamente trasformate nel crepuscolo dell'impero. Lo descrisse con straordinaria efficacia Robert Musil ne “L'uomo senza qualità”[5], raccontando dell'ambivalenza fra il disegno di potenza e l'inadeguatezza di una classe dirigente paralizzata nei suoi rituali barocchi. Lo aveva compreso qualche anno prima lo sguardo inquieto di Arthur Rimbaud che, in una delle sue “illuminazioni”[6], intravvide quel che sarebbe accaduto con le conquiste della scienza applicate alle tecniche della guerra, la “sovrumana promessa” che diventava “demenza”.
Noi, le nostre famiglie, il Trentino (o Welschtirol come era chiamato il Trentino di lingua italiana) erano (e dunque siamo) parte di quella storia. Storie di miseria e di emigrazione (dal 1874 al 1914 se ne andarono dal Trentino più di quarantamila persone), di guerra e di famiglie sfollate, ma anche di istruzione obbligatoria, di regole di autogoverno, di organizzazione del territorio (il catasto austriaco è ancora oggi considerato un punto di riferimento europeo), di cooperazione e di mutuo aiuto. Le lettere o le cartoline postali dei soldati trentini nella prima guerra mondiale raccolte nell'archivio del Museo storico del Trentino, così intense nel dolore della lontananza e così fragili da accostarvisi con la dovuta delicatezza, ci parlano di quella storia. Qualche anno fa mi è capitato di trovare in una biblioteca trentina una brochure del 1898 nella quale si pubblicizzavano in lingua italiana i “bagni solfurei” di “Ilidže, presso Sarajevo, in Bosnia”. Cose da ricchi, certo, ma che raccontano di una storia comune, di cui erano parte i cento minareti di quella città. Quanto potevano essere interessanti le storie delle nostre nonne (i miei nonni sono morti troppo giovani per poter raccontare). Ho il rammarico di non averle ascoltate quelle storie di vita, oppure rimosse come avvenne per i mobili di legno massiccio delle nostre vecchie case per lasciare il posto all'orrenda modernità della fòrmica, simbolo di un progresso plastificato, fin da allora insostenibile.
Il Novecento si presentò così, fra grandi speranze ed altrettanto grandi tragedie. «Ebbe inizio fra le risate dei bimbi, finirà grazie a loro»[7] scriveva ancora il poeta maledetto e ben presto quelle parole si caricarono di significato. Uomini mandati a morire nel gelo, per il capriccio di un generale o per gli interessi delle lobby militar-industriali. La guerra divenne il tratto di un secolo. Uomini che ne cancellano altri, in nome della loro civiltà, ovviamente superiore. Il campo di battaglia divenne l'industria della morte. “Arbeit mach frei” scrissero all'ingresso dell'inferno e non a caso. Non fu una parentesi, un ingorgo della storia. Le forme non sono casuali, i campi di concentramento – sotto ogni latitudine – erano fabbriche, ad Auschwitz come ad Arkhangelsk. Qualcuno, beffato dalla storia più di altri, li conobbe entrambi e diede di matto. Quando riapparsero nel cuore balcanico dell'Europa a fine secolo la storia si ripresentò, laddove l'assenza di elaborazione l'aveva lasciata. Cos'erano Omarska e Keraterm? Fabbriche... Ne verrebbero molte domande, prima fra tutte quella di quanto abbiamo elaborato del “secolo degli assassini”, del suo delirio fabbricato come della banalità del male...
Utopia e disincanto, da qui si dipanano le immagini con le quali Micaela Bertoldi mette a fuoco il Novecento, la grande storia che fa da sfondo alle microstorie. Dove un acquerello di famiglia ci può far comprendere, meglio ancora della storia ufficiale con il suo carico di retorica, l'umiliazione dell'emigrare, «la nebbia di fiato alla vetrine, il tiepido del pane e l'onta del rifiuto»[8], la fatica del vivere o la gioia della musica dopo il sordo rumore della guerra, il pulsare operoso dei borghi e delle città, i mille rivoli e le vite intrecciate di una comunità, gli incontri importanti e le amicizie.
Nel racconto di Micaela Bertoldi si può scorgere anche un itinerario intellettuale che s'intreccia con quello politico, che non si sottrae alla ricerca e al cambiamento, laddove la narrazione orale, le letture e gli incontri diventano altrettanti tasselli di un pensiero esigente, che non cede alla facile propaganda o ai populismi, talvolta doloroso perché incline alla solitudine dell'originalità.
Rimane un debito verso chi pur vicino a noi, per alterigia o per quel senso di delirio che la vita pubblica porta con sé, non abbiamo saputo ascoltare. Quel debito che in questo libro l'autrice cerca, per quanto possibile, di rimettere. Facendo così un regalo ai suoi nipoti e a tutti quelli che non si accontentano di un tempo declinato solo al presente.
Trento, primavera 2014
[1]Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina. Mondadori, 2001
[2]Claudio Magris, Danubio. Garzanti, 1986
[3]Jim Al-Khalili, La casa della saggezza. Bollati Boringhieri, 2010
[4]Aleksandar Hemon, Il progetto Lazarus. Einaudi, 2010
[5]Robert Musil, L'uomo senza qualità. Einaudi, 1957
[6]Arthur Rimbaud, Mattinata d'ebbrezza. Opere. Mondadori, 1975
[7]Arthur Rimbaud. Opera citata
[8]Gianmaria Testa, Ritals. Album “Da questa parte de mare”, 2006
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