"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Elezioni in Israele. La paura non basta più

Crepax

 

Oggi il voto in Israele. Una partita incerta, che forse decreterà la fine di Netanyahu. Aprendo così una nuova speranza di dialogo.

 

di Janiki Cingoli *

(17 marzo 2015) Netanyahu rimpiange certo amaramente la sua decisione di provocare le elezioni anticipate, licenziando all’inizio di dicembre i ministri di centro-sinistra Tzipi Livni e Yair Lapid insieme ai loro colleghi di partito. La sua scelta testimonia di quanto egli fosse oramai distaccato dal senso comune della gente, che invece era sempre più stanca della sua leadership. Lo slogan “chiunque salvo Bibi” è divenuto il tormentone di queste elezioni, e la prova di forza da lui manifestata con il discorso sull’Iran, davanti alla Camere riunite del Congresso degli Stati Uniti, in aperta sfida con il Presidente Obama, non ha avuto l’effetto di coalizzare l’opinione pubblica intorno al suo Premier, ma al contrario ha accresciuto il senso di insicurezza della popolazione, preoccupata per il profondo deterioramento dei rapporti con l’essenziale e determinante alleato USA.

Egli pensava che fosse sufficiente il continuo agitare i temi della sicurezza e della lotta al terrorismo, ma il pubblico evidentemente avrebbe preferito una cifra più misurata, ed una maggiore attenzione rivolta ai problemi quotidiani della gente, il caro casa, il caro viveri, la crisi sociale sempre più sentita. Viene in mente il titolo di un romanzo di Jorge Amado, “Teresa Batista stanca di guerra”. Si potrebbe dire che anche Israele è stanco di guerra, o almeno di una politica di sicurezza urlata, non misurata, incapace di guardare oltre l’orizzonte. Il paese richiede invece una attenzione diversa al malessere crescente della popolazione più disagiata, che è poi la principale base elettorale del Likud.

Sia chiaro, non c’è niente di definito, e tutto è ancora possibile: lo stesso andamento implacabile dei sondaggi elettorali, che attribuiscono alla coalizione di centro-sinistra guidata da Isaac Herzog e Tzipi Livni 25 seggi contro i 20-21 del Likud (su un totale di 120 seggi) può aver prodotto effetti contrari, fornendo a Netanyahu le motivazioni per richiamare all’ovile l’elettorato in fuga, ed in particolare i coloni, agitando lo spauracchio di una vittoria del centro-sinistra e promettendo nuovi insediamenti o il rifiuto di ogni concessione ai palestinesi. Certo questo potrebbe essergli servito a cannibalizzare i partiti minori alla sua destra e a recuperare qualche seggio, per reggere la sfida con Herzog su chi arriverà davanti e potrà quindi ottenere il primo incarico a formare il governo da parte del Presidente della Repubblica. Ma ciò non aumenterà certo i seggi complessivi del centro - destra, e lo ha costretto a spostarsi su posizioni sempre più estremiste, staccandosi dagli umori profondi dell’elettorato, oramai su posizioni più moderate.

Per converso, il leader laburista, Herzog, alleandosi a Tzipi Livni (leader di Hatnua e proveniente da Kadima, la formazione fondata da Sharon quando aveva deciso il ritiro da Gaza), ha spostato al Centro il baricentro del suo Partito, creando la nuova formazione “Unione Sionista”. I suoi toni sono stati sommessi ma determinati, non urlati ma in grado di farsi ascoltare. Certo, egli non è un grande leader capace di farsi seguire e di destare passioni, ma forse, nell’Israele di oggi, dopo tanto frastuono, questo modo di porgersi vien apprezzato più di quanto si pensasse. 

L’altra grande sorpresa di queste elezioni è stata la lista unita dei partiti arabi, che riuscendo a superare antiche e radicate rivalità si sono presentati insieme. Hanno così evitato di finire sotto lo sbarramento del 3,25 per cento, una soglia imposta dal leader di Yisrael Beitenu, l’ex Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, che ora rischia di restarne vittima, con la sua formazione sconquassata dalle inchieste giudiziarie. Al blocco arabo vengono attribuiti 13 seggi, facendone il terzo partito del paese. Esso potrebbe rappresentare l’elemento in grado di bloccare il tentativo di Netanyahu di coalizzare una maggioranza intorno a sé, anche se difficilmente potrà far parte di una maggioranza di centro-sinistra, per le sue divisioni interne e la sua riluttanza a allearsi con i partiti sionisti, a loro volta riluttanti ad allearsi a partiti “non sionisti”. Lo stesso mancato accordo della lista araba con il partito di estrema sinistra ebraica Meretz, per il recupero dei resti non utilizzati, non fa presagire niente di buono.

In conclusione, non vi è nulla di certo in queste elezioni: i due blocchi sono agitati da gravi tensioni interne e troveranno difficoltà gravi a mettere insieme una credibile maggioranza di governo: il Likud a recuperare l’alleanza con i tre partiti religiosi e con i due partiti centristi, Kulanu, guidato da Moshe Khalon, un ex-ministro uscito dalle file del Likud, e quotato a 9 seggi, o lo stesso Yisrael Beiteinu, di Lieberman, che in questa tornata elettorale ha cercato di reinventarsi su posizioni più moderate. Ma anche Herzog troverà difficoltà a conciliare la presenza di almeno due dei partiti religiosi, il sefardita Shas e l’aschenazita United Torah Judaism, con quella dell’ultra-laico Yesh Atid, o a conciliare quella del blocco arabo, o del Meretz, con Kulanu, per non parlare di Avigdor Lieberman.

Netanyahu potrebbe assemblare una maggioranza con più facilità, ma Herzog, se vedrà confermato il suo vantaggio. potrebbe partire per primo e guadagnare terreno.

Anche se nessuno dei due lo ammette, non può certo essere esclusa l’ipotesi di un governo di unità nazionale, che a quanto pare viene caldeggiata anche dal Presidente della Repubblica, Reuven Rivlin: uno che non può certo essere definito un grande estimatore di Netanyahu.

* direttore CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente)

 

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