Di fronte a uno scenario di questo tipo c’è una sola scelta che la politica non può permettersi, e cioè giocare la carta dell’omologazione dello spazio urbano attraverso l’anestetizzazione di tutto ciò che apparentemente non è conforme e facilmente gestibile. E’ obiettivo sbagliato e impraticabile quello di provare a tratteggiare una città senza conflitti, senza contraddizioni, senza le necessarie (e utili) increspature. Una città liscia, normale o normalizzata, silenziosa. Una città con il pilota automatico, che non riserva scossoni ma nemmeno possiede gli strumenti per articolare il proprio futuro. Figlia di pianificazioni non del tutto riuscite, della generale de-responsabilizzazione delle classi dirigenti, di risorse meno ampie che in passato, di comunità sempre più frammentate.
La campagna elettorale a cui stiamo assistendo sottovaluta la fase di transizione che stiamo vivendo, accontentandosi di offrire da un lato l’opzione rassicurante della continuità – un po’ stanca – di un percorso amministrativo da qualche tempo in difficoltà nell’offrire scenari d’insieme e dall’altro la semplificatoria promessa di un candidato pragmatico, del “fare” e non del “pensare”, come se di questa seconda azione non ci fosse invece estremo bisogno.
Non producono effetti gli slogan che richiedono sicurezza e lotta al degrado, così come non è sufficiente l’elencazione di parole passpartout che tanto “riempiono” i programmi elettorali: smart city, partecipazione, sharing economy, sostenibilità, cittadinanza. E’ necessario intendere le città “come teatro dei corpi (e delle loro relazioni) e scena dove essi possono giocare con il potere limitato e fortissimo che hanno, il potere di chi ‘sa stare’.” Così scrive Franco La Cecla in un breve saggio dal provocatorio titolo “Contro l’urbanistica”. Non solo un atto d’accusa al ruolo dei progettisti e dei pianificatori urbani, ma una più generale analisi di un modo “altro” di guardare all’evoluzione delle città. Predominanza della dimensione sociale rispetto a quella economica, ricerca dell’uguaglianza e non esclusivamente del profitto, valorizzazione delle unicità per contrastare l’omologazione, rifiuto della semplificazione in nome di un rinnovato bisogno di complessità. Un invito a riscoprire la città per come la descrive Lewis Mumford: “Un esperimento umano del convivere tra mercato, artigianato e arte, in una dialettica di prossimità e passaggi, lungo percorsi, spazi, in una relazione continua tra persone e oggetti costruiti: muri, facciate, dislivelli, altezze, ponti e passerelle.” Una tela piena di increspature, impossibili da eliminare e nei confronti delle quali vanno trovati gli strumenti di ascolto, confronto e – dove possibile – collaborazione.
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