"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Le necessarie increspature della città

Foto di Gabriele Basilico

 

di Federico Zappini *

Il vero degrado è la vostra riqualificazione.” Così recita un tratto a bomboletta sull’intonaco all’incrocio tra via degli Orti e via Carlo Esterle a Trento. Una provocazione, certo. Un approccio estremo ma pur sempre uno spunto di riflessione, laddove non raramente le riqualificazioni urbane (così come le abbiamo conosciute negli ultimi decenni) hanno determinato fenomeni di gentrificazione e fallimentari esperimenti urbanistici.

Potrà dare fastidio – potrà anche sembrare un affronto al decoro e all’ordine – ma finché ci sarà chi scrive su un muro le proprie idee perché altri le leggano, possiamo essere certi che la città sarà ancora viva. Lo stesso accade quando qualcuno – con fatica, impegno e una buona dose di coraggio – decide di occupare uno spazio abbandonato da anni per farlo rivivere oppure organizza settimanalmente concerti negli angoli dimenticati dedicati ai musicisti di strada (come fa con grande costanza I Know a place da alcuni anni) con l’obiettivo di promuovere cultura, creatività e relazioni.

Questa premessa non suggerisce la “liberalizzazione” di ogni gesto urbano – anche il più insensato e autoreferenziale – in una sorta di giustificazione dell’estetica del gesto fine a se stessa, ma pone l’accento sulla necessità di non negare la presenza di differenti “linguaggi urbani” che dal territorio emergono costantemente. Tralasciamo allora per un momento il giudizio sui metodi e concentriamoci sul contesto in cui queste azioni prendono forma.

Le città, da sempre, ricoprono un ruolo di avanguardia nei processi di trasformazione sociale, economica e culturale. E’ al loro interno che si manifesta – in anticipo – l’emergere di energie capaci di far evolvere la narrazione (che si vorrebbe invece immutabile e monolitica) di ogni comunità, determinandone uno scarto di paradigma, un’ipotesi innovativa. E’ stato così quando il lavoro e la produzione ne disegnarono le forme attorno alla fabbrica, lasciando dietro di sé – anni dopo – scheletri e rovine. E’ così oggi, con rinnovati sentimenti comunitari e cooperativi che fanno da contraltare alla tendenza al rinserramento, alla paura e al rancore. Nemmeno Trento sfugge a questa contrapposizione e la campagna elettorale in corso ne è testimonianza.

Di fronte a uno scenario di questo tipo c’è una sola scelta che la politica non può permettersi, e cioè giocare la carta dell’omologazione dello spazio urbano attraverso l’anestetizzazione di tutto ciò che apparentemente non è conforme e facilmente gestibile. E’ obiettivo sbagliato e impraticabile quello di provare a tratteggiare una città senza conflitti, senza contraddizioni, senza le necessarie (e utili) increspature. Una città liscia, normale o normalizzata, silenziosa. Una città con il pilota automatico, che non riserva scossoni ma nemmeno possiede gli strumenti per articolare il proprio futuro. Figlia di pianificazioni non del tutto riuscite, della generale de-responsabilizzazione delle classi dirigenti, di risorse meno ampie che in passato, di comunità sempre più frammentate.
La campagna elettorale a cui stiamo assistendo sottovaluta la fase di transizione che stiamo vivendo, accontentandosi di offrire da un lato l’opzione rassicurante della continuità – un po’ stanca – di un percorso amministrativo da qualche tempo in difficoltà nell’offrire scenari d’insieme e dall’altro la semplificatoria promessa di un candidato pragmatico, del “fare” e non del “pensare”, come se di questa seconda azione non ci fosse invece estremo bisogno.

Non producono effetti gli slogan che richiedono sicurezza e lotta al degrado, così come non è sufficiente l’elencazione di parole passpartout che tanto “riempiono” i programmi elettorali: smart city, partecipazione, sharing economy, sostenibilità, cittadinanza. E’ necessario intendere le città “come teatro dei corpi (e delle loro relazioni) e scena dove essi possono giocare con il potere limitato e fortissimo che hanno, il potere di chi ‘sa stare’.” Così scrive Franco La Cecla in un breve saggio dal provocatorio titolo “Contro l’urbanistica”. Non solo un atto d’accusa al ruolo dei progettisti e dei pianificatori urbani, ma una più generale analisi di un modo “altro” di guardare all’evoluzione delle città. Predominanza della dimensione sociale rispetto a quella economica, ricerca dell’uguaglianza e non esclusivamente del profitto, valorizzazione delle unicità per contrastare l’omologazione, rifiuto della semplificazione in nome di un rinnovato bisogno di complessità. Un invito a riscoprire la città per come la descrive Lewis Mumford: “Un esperimento umano del convivere tra mercato, artigianato e arte, in una dialettica di prossimità e passaggi, lungo percorsi, spazi, in una relazione continua tra persone e oggetti costruiti: muri, facciate, dislivelli, altezze, ponti e passerelle.” Una tela piena di increspature, impossibili da eliminare e nei confronti delle quali vanno trovati gli strumenti di ascolto, confronto e – dove possibile – collaborazione.

* dal sito https://pontidivista.wordpress.com/

 

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