"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Ilvo Diamanti *
(27 aprile 2015) Matteo Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo.
L'Italicum, però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.
D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'in-costituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automaticamente, premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.
È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.
Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd. Un orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto, Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il 1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista. Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma, piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente: "vi manderò a casa". Tutti.
Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.
* da www.repubblica.it
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