di Federico Zappini
(6 settembre 2015) Non mi va di passare per cinico perché non condivido convintamente la foto del piccolo Aylan Kurdi, morto a tre anni naufragando sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Non riesco ad appassionarmi alla discussione sulla correttezza (deontologica, politica, ecc.) della scelta di pubblicare quell’immagine sulle prime pagine dei quotidiani e non mi sogno nemmeno di giudicare chi ha deciso di contribuire a rendere virale online postandola sulle proprie bacheche Facebook e Twitter. Indignarsi è legittimo, addirittura vitale laddove significa non accettare il fluire, spesso tragico, degli eventi che ci circondano.
Mi chiedo però se vale questo metro di valutazione. Se solo una persona in più dopo la tragica fine di Aylan – e la sua trasmissione a media unificati – si dirà sensibilizzata allora aver affondato quel pugno comunicativo sarà giustificato? Non sono del tutto convinto di questa interpretazione, o meglio la trovo gravemente insufficiente. Se solo gli scatti che hanno fermato su pellicola le immani tragedie del Novecento avessero davvero agito in questa maniera (da catalizzatori di attenzione e riflessione, da pungoli accuminati per coscienze dormienti, da monito di fronte al ripetersi ciclico della storia) oggi probabilmente non ci troveremo nella condizione di aver iniziato un nuovo “secolo degli assassini” subito dopo esserci detti che quello precedente sarebbe stato l’ultimo, irripetibile. Altro che “restiamo umani”… Quest’incapacità conclamata di imparare dal passato ci dice che si è ampliata a dismisura la platea dei (dis)umani o forse — è questa l’ipotesi che io sostengo — abbiamo sottovalutato la violenza potenziale che pulsa dentro ognuno di noi, che ci definiamo orgogliosamente umani, o più semplicemente buoni.
L’indignazione, di questi tempi, è merce che si vende a buon mercato e a giorni alterni soffia in una direzione o in quella opposta. Si basa su pulsioni estreme, su sentimenti violenti. Essendo estremi appunto vivono di picchi di attenzione – brevi nei tempi e potentissimi nella capacità di penetrazione dal punto di vista comunicativo — e di lunghe fasi di dimenticanza. Sull’immigrazione questa dinamica è terribilmente evidente, ma in generale lo schema rimane comune a ogni tema, a ogni (vera o presunta) emergenza. Ci indigniamo di fronte a quella che ci appare come un’ingiustizia ma in fin dei conti quell’indignazione (di stampo razzista o solidaristico, poco cambia) altro non è che la reazione all’immissione nel nostro organismo della dose quotidiana di un reagente da cui siamo dipendenti. Ne abbiamo bisogno, per costruire su di essa una nostra fragile e altalenante identità. Ne scrivono bene Mantellini (dal punto di vista della dipendenza) e Fubini, nel descrivere come oggi la nostra società sia orfana di leadership e guidata da influencer (professionisti dell’indignazione e della polemica, molto attivi soprattutto sfruttando le frenetiche timeline dei social network). A questi influencer fanno riferimento comunità di followers che costruiscono il proprio approccio alla complessità attraverso gli schemi semplificati proposti. A questa dimensione appartengono i fenomeni Grillo e Salvini, non ne è immune nepure Renzi. Influencer potenti sono anche fuori dalla politica. Roberto Saviano e Gino Strada ad esempio. Persino Natalino Balasso. Sì, lo stesso che mi faceva ridere a Mai dire Gol. E il discorso lo possiamo esportare certamente anche fuori dai confini italiani. Stimolatori seriali dell’indignazione, sentimento imperfetto perché inutile se non accompagnato dalla contemporanea consapevolezza di cosa farsene, di dove portarla. Potente certo, ma embrionale e non sempre foriera di azioni adeguate al contesto.
Personalmente non mi sento più indignato oggi rispetto a come lo sono stato negli ultimi dieci/quindici anni, quelli successivi alla mia (personalissima) presa di coscienza della direzione in cui si stava muovendo il mondo. Mi sento però oggi più solo, più spaesato, certamente più impotente.
Non vorrei passare ora per depresso, condizione di cui non mi sento portatore per una costante attitudine alla curiosità che quotidianamente mi sforzo di esercitare. Nemmeno la schizofrenia mi appartiene e se ieri non insorgevo (non più del solito) per l’ennesima tragedia dell’immigrazione, non riesco oggi a emozionarmi oltre il dovuto per l’Inno alla gioia suonato nelle stazioni tedesche all’arrivo dei profughi siriani dopo l’apertura delle frontiere. L’uso costante dell’inquadratura stretta e l’attenzione esasperata per il particolare (meglio se estremo, positivo o negativo che sia) è nelle corde degli influencer di cui ho già parlato in precedenza, e di fatto anche in quelle del cittadino comune. Questa osservazione volutamente parziale del contesto ci fa perdere di vista la profondità di campo necessaria a non apparire, appunto, schizofrenici nei nostri commenti e nei nostri sentimenti. Ieri censori senza appello dell’Europa Fortezza (definizione coniata anni fa e rimasta a lungo patrimonio di una sparuta minoranza), oggi celebranti della sua repentina risurrezione, grazie ovviamente al colpo di defibrillatore (ah, gli scherzi del destino…) offerto da Frau Merkel, fino al giorno prima a capo di una cricca di gerarchi pronti ad instaurare il Quarto Raich sul territorio europeo. Delle due l’una, o forse — consiglio per tutti — è preferibile concentrarsi su ciò che sta in mezzo e cioè quella miriade di sfumature che compongono il periodo estremamente complesso che un pianeta mai così interconnesso ci pone ogni giorno. Il tema dell’immigrazione è qui a darcene dimostrazione plastica, peggio per noi se non sapremo fare tesoro.
Se questi fenomeni migratori (il Pentagono parla di una fase lunga almeno 20 anni, nulla di più probabile a queste condizioni) ci dicono una cosa del futuro è che i diritti dell’uomo non si gestiscono nelle emergenze — come è nostra abitudine — ma nella normalità. E oggi la normalità, almeno dovrebbe essere così, sta nel comprendere la portata di una serie di crisi concatenate che non possiedono più le caratteristiche della tansitorietà, ma sono in tutto e per tutto segnali della definizione di un nuovo equilibrio, le cui premesse sono esplosive, da qualunque lato le si guardi. Un equilibrio che non ha oggi contorni chiari, a conferma dello spaesamento che non credo appartenga solo a me. Crisi economiche, crisi ambientali, crisi umanitarie, crisi militari, crisi energetiche, crisi culturali. Basterebbero queste, connesse tra loro e dislocate territorialmente a ogni angolo del pianeta, per comprendere la gravità della situazione e invitarci ad affrontarla riappropriandoci della necessaria radicalità delle scelte politiche, e ancor prima delle idee e delle visioni che devono stare alla base delle decisioni. Senza questa radicalità (dai tratti credo fortemente impopolari, ad ogni livello della governance) l’azione politica si riduce a gestione dell’ordinaria amministrazione, oggi dai connotati apparentemente inestricabili e fortemente conflittuali.
Per comprendere appieno la portata del cambio di approccio alle cose che abbiamo la necessità di innescare e bene provare ad riflettere brevemente attorno alle tre grandi contraddizioni che la situazione di questi ultimi giorni ha portato a galla con maggiore evidenza.
Rifugiati e migranti.
Lo hanno scritto in molti in questi giorni. Sta passando con troppa leggerezza questa netta divisione delle componenti dei flussi migratori. Da una parte — esagero volutamente — i richiedenti asilo, certificati dalle Commissioni, che ne hanno davvero bisogno. Dall’altra i migranti “solamente” economici, privi di diritto. Come se il fatto di avere gravi problemi nel mettere insieme il pranzo con la cena non fosse motivazione sufficiente a pensare di muoversi verso un altro punto del globo che si immagine possa offrire garanzie migliori. Questa selezione all’ingresso che favorisce la creazione dell’odiosa categoria del clandestino si esprime in questi momenti alla massima potenza. Se ad esempio in Germania i siriani sono ben accetti che ne sarà di un pakistano o di un bengalese? Per un profugo accolto ogni migrante economico rischierà quindi il rimpatrio veloce oppure il respingimento in mare?
Pensateci. Non è una questione di lana caprina e sottende la necessità di avere una visione d’insieme dei fenomeni migratori, delle loro cause e degli strumenti per affrontarli. Se non lo facciamo, ci accontentiamo di nuovo dell’approccio emergenziale che va — da sempre — per la maggiore.
Accoglienza come atto minimo.
Sono i paradigmi economici che vanno intaccati. “Siate accoglienti…” “Riscoprite l’accoglienza.” Questi sonogli inviti che in questi giorni sono risuonati spesso nel dibattito europeo. Importanti perché l’essere disponibili ad accogliere non è atto scontato mettendo in gioco esso l’empatia che si deve provare, o meno, verso il prossimo. L’accoglienza non può essere il fine, ma è necessario rimanga uno strumento di interazione e a garanzia di un primo contatto. La separatezza tra accogliente e accolto deve essere temporanea, per non diventare relazione patologica per entrambi. L’accoglienza è il minimo che possiamo offrire.
C’è però un aspetto in più che faremmo bene a prendere in considerazione e che dovrebbe aiutarci a ribaltare alcune nostre rigide abitudini di ragionamento. Il bussare incessante alle porte dell’Europa (così come in diversi altri frangenti del pianeta, sempre da sud verso nord) non corrisponde solo a un temporaneo grido di “aiuto!” ma è l’esprimersi- con percentuali parzialmente diverse— da altri punti di vista dell’efficace rappresentazione del 99% della popolazione che si ribella ai privilegi del restante 1%. In questa situazione, se vogliamo essere sinceri fino in fondo, noi siamo parte di questa elitè e faremmo bene ad interrogarci (come spesso ci propone in quest’ultimo periodo Papa Francesco) sul come “prenderci cura della casa comune” piuttosto che — le parole ritornano-nella perenne emergenza cercare un angoletto per un nostro fratello (diverso) in difficoltà.
Sono i paradigmi economici dentro i quali sono cresciute e successivamente esplose le contraddizioni della diseguaglianza che vanno sostituiti, questi sì “rottamati” perchè non più riformabili. Si parte da qui se davvero si vogliono trasformare le migrazioni (obbligate) per la vita in viaggi (consapevoli) per opportunità, incontro e conoscenza. Sono due visioni opposte e non conciliabili. Certo è che nella direzione in cui ci stiamo muovendo non possiamo proseguire. Non per il rischio della distruzione del pianeta, resiliente fino a prova contraria, ma per la salvaguardia della nostra specie, a rischio di auto-estinzione.
Confini e stati nazionali.
Nei giorni scorsi ho ascoltato un’esponente politica di centro-sinistra attiva sul territorio trentino affermare che una delle operazioni necessarie per superare la crisi dell’immigrazione è la stabilizzazione della Libia. Non so se lei possedesse anche un “piano” per raggiungere questo obiettivo, ma a prescindere da questo ciò che ci dice l’evoluzione geopolitica — almeno per quanto riguarda Europa, Africa e Medioriente- è che si scontrano sul terreno due fenomeni contrapposti. Da un lato lo sfarinamento della rete di confini e sovranità che il Novecento ci aveva lasciato in eredità nel continente africano e dall’altro un riemergere tambureggiante – specialmente per quanto riguarda l’UE — della centralità degli stati e dei confini, con alcune pericolose derive nazionaliste. Da sostenitore dell’Europa così come la avevano immaginata i padri fondatori mi piace ricordare un passaggio di Altiero Spinelli nel Manifesto di Ventotene:
«Le forse reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. […] Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse che i loro capi miopi sul terreno della ricostruzione degli stati abbattutti dalla bufera. […]
Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito prepicuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzirebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani».
Sempre per restare in tema di opzioni radicali che dovrebbero trovare applicazione, chi sarà il primo disponibile a cedere (anche totalmente) la propria sovranità statuale in nome di una condivisione lungimirante e sostenibile del futuro? Chi, praticando con convinzione la prima ipotesi, deciderà di far diventare i confini un vecchio ricordo in nome di una reale e totale libertà di circolazione?
Da qui mi sento di condividere. Accettando qualsiasi commento, appunto, correzione, aggiunta. Discutiamone.
* da https://pontidivista.wordpress.com/