"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

A piedi scalzi, ma con sguardo lucido

Il muro ungherese

di Mauro Cereghini *

(19 settembre 2015) Finalmente. Ci sono voluti ventiquattro anni dai primi sbarchi in massa sulle coste italiane, quando in un solo giorno del 1991 arrivarono a Bari oltre ventimila albanesi in fuga dalla dittatura. E ci sono voluti almeno 21.439 cadaveri - tanti ne ha contati il giornalista Gabriele Del Grande fino al 2014, affogati nel Mediterraneo oppure morti alle frontiere terrestri dell'Unione Europea. Ma oggi finalmente si comincia a guardare l'arrivo di profughi e migranti con altri occhi.

Quelli della compassione, anzitutto, che permette di vedere e accogliere persone, uomini e donne in cerca di aiuto, anziché "clandestini" o "richiedenti asilo". Le carovane di cittadini austriaci andati volontariamente a prenderli in Ungheria sono l'esempio più eclatante, ma anche nel nostro Trentino l'umanità si è mostrata più della paura. Finalmente la maggioranza dell'opinione pubblica europea condanna il filo spinato steso ai suoi confini, dopo che per anni lo ha accettato in silenzio attorno alle enclavi spagnole in Marocco o sul confine tra Grecia e Turchia.

Compassione e indignazione da sole però non bastano, occorre aggiungere la comprensione. E capire il fenomeno migratorio significa anzitutto smettere di pensarlo una "emergenza", per trattarlo da quello che è: un prodotto strutturale del nostro tempo. Il mondo del ventunesimo secolo è instabile e interdipendente. Se si spostano da un capo all'altro merci e capitali, se i social network connettono ogni remoto villaggio, perché non dovrebbero spostarsi le persone in carne ed ossa?

Le ragioni per cui si parte sono varie e intrecciate tra loro, non si può semplificarle nella dicotomia "migranti economici" o "profughi di guerra". Anche perché categorie come "rifugiato politico" sono frutto di un tempo - il novecento dei totalitarismi - che non esiste più. Le migrazioni contemporanee sono la cartina di tornasole di almeno quattro crisi globali sovrapposte: anzitutto la crisi del sistema basato sugli stati nazionali e sulla loro organizzazione comune, le Nazioni Unite. Un sistema incapace di prevenire le guerre odierne - eppure si poteva offrire uno sbocco diverso alle "primavere arabe" - come di fermarne l'estrema violenza: contro l'Isis o altri gruppi indifferenti alle regole del passato, cosa può una condanna ONU? Un sistema inoltre che ha rilegittimato l'azione militare, dalla prima Guerra del golfo di Bush padre fino ai bombardamenti anglo-francesi sulla Libia, senza mai risolvere alcunché anzi creando le condizioni del caos odierno. Caos che noi paghiamo solo in minima parte, dato che la maggioranza dei rifugiati – milioni, non migliaia! – è accolta in paesi limitrofi come Tunisia e Giordania.

Ma le migrazioni sono anche frutto della trasformazione economica globale, che erroneamente continuiamo a chiamare crisi pensandola un fenomeno transitorio. E' invece la forma economica del nostro secolo, quella per cui il lavoro umano non serve più a creare capitale, anzi lo frena, mentre la ricchezza si genera con la finanza e i traffici. Cresce così la distanza – in Africa, in America Latina, ma anche da noi – tra pochi grandi ricchi e la maggioranza degli esclusi, a cui non resta che partire. I principali flussi migratori si contano dalle zone rurali alle megalopoli del sud del mondo, e chi varca il Mediterraneo è ancora una sparuta minoranza.

C'è poi una crisi ambientale sotto gli occhi di tutti, ma ancora non nell'agenda vera della politica internazionale. I cambiamenti climatici stanno già producendo effetti concreti, con l'aumento delle catastrofi ambientali e di conseguenza dei profughi. Da ultimo la globalizzazione culturale ha prodotto crisi e trasformazioni profonde nei modelli identitari, specie giovanili, in molti paesi. Assieme a chi fugge da guerre, fame o inondazioni, perciò, c'è chi si muove attratto dalle molte declinazioni possibili del sogno occidentale. Un sogno tramontato davanti agli evidenti limiti sociali ed ambientali dello “sviluppo”, ma ancora attuale nell'ideale collettivo, se pure ai nostri giorni molti governi continuano ad inseguire la chimera della crescita.

Quattro crisi concomitanti e intrecciate che generano un fenomeno complesso. I migranti non portano nei nostri paesi solo le loro storie personali, tutte diverse. Portano il messaggio del tempo che ci aspetta. Non sono i primi, peraltro: da decenni studiosi, attivisti e movimenti sociali lanciavano allarmi: "Se le nuove generazioni dei paesi in via di sviluppo non potranno migliorare le loro condizioni - scriveva il primo Rapporto sullo sviluppo umano dell'UNDP - [...] la spinta verso la migrazione in cerca di migliori opportunità economiche sarà schiacciante". Era il 1990.

Oggi finalmente in tanti accogliamo i profughi a piedi scalzi. Facciamolo anche con sguardo lucido, mettendo assieme strumenti di ospitalità e integrazione con i cambiamenti necessari nel resto delle nostre politiche. Il governo italiano ha operato in modo positivo davanti agli sbarchi, ma contemporaneamente esulta per i giacimenti di petrolio scoperti dall'ENI nel mare egiziano. Ossia per la conferma di un modello vecchio, fatto di consumi energetici inquinanti e di accordi economici dal sapore neo-coloniale. Un modello che al fondo produrrà nuovi profughi.

Occorrono lucidità e coerenza invece, perché nel tempo dell'interdipendenza globale non sono più possibili politiche settoriali scollegate tra loro, in Europa come in Italia o in Trentino. Allo stesso modo occorre coerenza tra l'abbraccio ai migranti ed il rimboccarsi le maniche, per cambiare questo nostro mondo e permettere a tutti di non dover fuggire di casa. Costruire muri o sventolare bandiere di protesta, al di là delle becere strumentalizzazioni politiche, è un segno di paura verso l'ignoto. Comprensibile, ma inutile. Quando si alza il vento, i marinai non provano a fermarlo con le mani. Lo scrutano, per spiegare al meglio le vele e continuare a navigare fra le onde.

 

* Mauro Cereghini è presidente del Centro per la formazione alla solidarietà internazionale

 

 

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