di Federico Zappini
(15 novembre 2015) Non ho soluzioni da proporre. Parto da questo basilare e non consolatorio grado di consapevolezza. Altrimenti lavorerei come titolista dentro qualche redazione che ha scelto, non è una novità, di interpretare il ruolo di strillone sguaiato dello scontro di civiltà. Oppure mi sarei scatenato, via Twitter, in quella che è stata per ore la sfida a chi la sparava più grossa. Chi rilanciando l’ipotesi di un false flag, chi quella di una nascente resistenza antifascista che dalla città curda di Kobane si allarghi all’Europa intera, chi immaginando di ridurre “la Siria ad un parcheggio” (quasi cit. della serie tv Homeland) in nome della difesa della nostra civiltà sotto attacco.
Sono piuttosto confuso, non potrebbe essere altrimenti. Non nascondo neppure un po’ di paura, che sarebbe stupido negare. Sono preoccupato, ed è il sentimento prevalente, dalla piega che stanno prendendo le cose e dell’inadeguatezza degli strumenti interpretativi a nostra disposizione per tentare di darne lettura e costruire un’alternativa ad un pensiero dominante che – con differenti sfumature, tra loro anche molto distanti – fa riferimento esplicito e convinto alla guerra, allo scontro tra un “noi” e “loro” sempre più a geometria variabile ma in ogni caso inevitabile. Tenere a bada il nostro spirito guerriero è l’obiettivo primario di cui farsi carico, laddove la nostra storia recente di “combattenti per la democrazia” e di sostenitori incondizionati di quella che abbiamo descritto come la “parte buona del mondo” risulta essere parte del problema e non certamente la possibile soluzione.
L’attacco di Parigi ha una potenza simbolica che non mi lascia indifferente. Lo Stade de France e il pensiero ricorrente in questi giorni di passare la prossima estate a Marsiglia per raccontare le storie più interessante collegata all’Europeo di calcio e alle sue declinazioni più popolari, tra periferie e pallone. Gli Eagles of Death Metal e la naturalezza con cui riesco a calarmi nei panni delle centinaia di ragazzi e ragazze attratti da un rumoroso e sudaticcio concerto rock al Bataclan. La Francia in generale, diventata in questi anni mio orizzonte preferito di fuga. Realtà che ho imparato a conoscere e amare per, e nonostante, le sue innumerevoli contraddizioni.
Per rimanere al confine tra sport e politica negli ultimi vent’anni abbiamo esaltato una Nazionale di calcio multietnica capace di eccellere in ogni competizione grazie alla valorizzazione del meticciato. Esattamente dieci anni fa ci siamo interrogati (con insufficiente attenzione e quindi con scarsi risultati) sul fenomeno delle banlieues, figlio dell’esclusione sociale ed economica che fette considerevoli di giovanissimi subiscono proprio per l’assenza di un nuovo approccio ai temi della cittadinanza e della convivenza nei contesti urbani. Oggi ci sentiamo impotenti di fronte a linguaggi e a pratiche del conflitto che trascendono i contorni dello Stato nazione diventando globali e che non appartengono più alla galassia della rivendicazione di diritti economici, sociali e culturali ma esplodono in una nuovo ondata di fanatismi religiosi e nazionalismi. Una sorta di rappresentazione pratica, e su scala planetaria, della “teoria delle finestre rotte”, laddove il non avere aggiustato i primi cristalli scheggiati sulla facciata della nostra casa comune ci mette oggi nella condizione di osservare i cumuli di frammenti di vetro abbandonati sul pavimento dalla nostra incuria. Da questo punto di vista il 2015 francese, da Charlie Hebdo in poi, è l’immagine più eloquente del disordine a cui non sappiamo trovare alternativa se non dentro schemi – quelli della guerra e del predominio politico, economico e culturale occidentale sul resto del mondo – ormai inutilizzabili e evidentemente inefficaci.
#porteouverte è l’hashtag che spontaneamente i parigini hanno coniato per offrire riparo ai propri concittadini in fuga dai luoghi degli attentati. Un gesto in controtendenza – solidale e umano – rispetto al protocollo d’emergenza immediatamente predisposto dal presidente Hollande, che innalza il livello dei controlli di sicurezza nelle città e rende più difficile attraversare le frontiere. #porteouverte è un auspicio. Perché a rimanere spalancate non siano solo le porte ma anche le riflessioni all’interno delle nostre comunità, oggi messe alla prova dalla necessità di descrivere – dentro uno scenario fortemente conflittuale – le traiettorie desiderabili e sostenibili per un pianeta da consegnare alle prossime generazioni. Sembra impossibile che sia questo il momento delle visioni di lungo termine, dove a determinare le scelte politiche sono sempre più spesso la strettissima attualità e il contingente alternarsi di azione e reazione, proprio come sta avvenendo ora a poco più di quarantotto ore dai tragici fatti francesi.
Tenere le porte aperte non risponde solo all’esigenza materiale di offrire rifugio ma anche all’impegno di ritrovarsi, di condividere pensieri e azioni, di non accettare l’ipotesi dello scontro di civiltà come l’unica possibile sul terreno. Di finestre da rompere non ce ne sono più.
*immagine tratta da Catarsi, di Luz
Dentro la redazione di Charlie Hebdo a Parigi Luz c’era e ha visto morire alcuni dei suoi migliori amici. Ritrovata la voglia di disegnare persa quel giorno la sua Catarsi (questo il titolo del suo fumetto uscito da poche settimane…) prende la forma di un racconto che odia la retorica, ci interroga dentro un caleidoscopio di sentimenti tra loro contrastanti e riesce anche a rappresentare graficamente il “balletto” di due figuri neri armati di kalashnikov. La sua è una transizione umana e artistica tradotta in disegni e parole. Da leggere, assolutamente.