"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Una nuova tappa per la Spagna

Tabella elezioni politiche spagna, dicembre 2015

Un'attenta analisi dell'esito delle elezioni politiche in Spagna. Grazie Steven.

di Steven Forti

(22 dicembre 2015) Le elezioni spagnole del 20 dicembre hanno segnato l’inizio di una nuova tappa politica per il paese iberico. È finito il tempo delle maggioranze assolute, dei governi monocolore e del bipartitismo imperfetto. Vince il Partido Popular di Mariano Rajoy, mentre il PSOE di Pedro Sánchez mantiene il secondo posto, ma entrambi perdono moltissimi voti e seggi. Entrano con forza nelle Cortes di Madrid Ciudadanos e soprattutto Podemos, il vincitore morale di questo appuntamento elettorale. Ora inizia un tempo nuovo e incerto. Gli scenari possibili sono tre: un’alleanza di sinistra ampliata sullo stile portoghese, una grosse koalition alla tedesca o nuove elezioni.

Tracollo di Rajoy, rimonta di Podemos

Come nel vicino Portogallo, la destra che ha governato la Spagna negli ultimi quattro anni, applicando dure politiche di austerity, si è mantenuta primo partito in un appuntamento elettorale che ha visto crescere la partecipazione (73,2%) rispetto al 2011 e diminuire l’astensionismo (26,8%). Ma ancor più di Passos Coelho, i popolari di Rajoy, con il 28,7% dei voti e 123 deputati, hanno subito un tracollo considerevole, perdendo oltre 3,6 milioni di voti e ben 63 deputati. I socialisti guidati da Pedro Sánchez hanno tenuto meglio del previsto: 22% e 90 deputati, perdendo comunque 1,5 milioni di voti e 20 deputati. È il loro peggior risultato dalla fine della dittatura franchista. Ma è il bipartitismo nel suo complesso ad essere in crisi: se nel 2011 PP e PSOE sommavano il 73% dei voti (296 seggi), ora superano di pochissimo il 50% (213 seggi). Non è un crollo, questo è certo, ma è una caduta che pare non aver toccato fondo, iniziata con le elezioni europee del 2014 e continuata con le amministrative di maggio e le regionali catalane di settembre.

A sorridere è soprattutto Podemos che, grazie alle intelligenti alleanze in ambito regionale (Catalogna, Galizia, regione valenzana), conquista il 20,6% dei voti e 69 deputati. 5,18 milioni di persone hanno votato il partito guidato da Pablo Iglesias, rendendo possibile la “remontada” annunciata nell’intensa campagna elettorale e fermandosi a un soffio dal sorpasso ai socialisti (5,5 milioni di voti), favoriti, come il PP, da un sistema elettorale che premia i due grandi partiti, soprattutto nelle circoscrizioni elettorali poco popolate. Di deputati Ciudadanos ne ottiene 40 (3,5 milioni di voti, pari al 13,9% del totale), molti meno di quelli che gli attribuivano i sondaggi. Il partito guidato da Albert Rivera si è sgonfiato a contatto con la realtà, dimostrando che, a differenza di Podemos, è un partito costruito attorno a una sola persona e che non è radicato sul territorio. Sarà comunque un attore non secondario della nuova legislatura, ma non avrà il ruolo di ago della bilancia nella formazione del nuovo governo.

In Parlamento entrano anche altre formazioni, come Unidad Popular – Izquierda Unida (3,67% dei voti e 2 deputati), i nazionalisti baschi e catalani e i regionalisti delle Canarie (Coalición Canaria con 1 deputato), mentre scompare definitivamente Unión Progreso y Democracia (UPyD), che nel 2011 aveva ottenuto oltre un milione di voti e 5 deputati. Ma anche nei Paesi Baschi e in Catalogna cambiano gli equilibri, un dato di cui tenere conto. Con il 26% Podemos è il primo partito in voti nei Paesi Baschi, ma non in seggi (5), superato dal Partido Nacionalista Vasco (PNV) che ne ottiene 6, mentre la sinistra abertzale di EH Bildu perde un terzo dei voti e passa da 7 a 2 deputati. In Catalogna, invece, per En Comú Podem (ECP), la confluenza che riunisce Podemos, ICV-EUiA, Equo e Barcelona en Comú, è una vittoria storica: con il 24,7% dei voti manda alle Cortes 12 deputati, molti di più dei socialisti (8) e dei popolari (5), ma anche di Ciudadanos (5) e dei partiti indipendentisti che non si presentavano in coalizione come alle regionali dello scorso 27 settembre: il centro-sinistra indipendentista di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ne ottiene 9 (3 nel 2011), superando la destra di Convergència Democràtica de Catalunya (CDC) che, presentatasi con il nome di Democràcia i Llibertat, si ferma a 8, il peggior risultato dal 1979 (nel 2011 ne aveva ottenuti 16).

Un parlamento frammentato

Una situazione “endiablada”, uno scenario italiano, un rebus di difficilissima soluzione. Questi sono i primi commenti, risultati alla mano. Quello di questa XI legislatura è il Parlamento più frammentato della Spagna degli ultimi quarant’anni e non ci sono maggioranze possibili (la maggioranza assoluta è di 176), né di centro-destra (PP e Ciudadanos sommano 163 deputati) né di centro-sinistra (PSOE, Podemos e IU ne sommano 161): è la prima volta che la notte dopo le elezioni non si conosce il nome del nuovo presidente. Rajoy ha dichiarato che tocca a lui tentare di formare governo, ma le possibilità sono ben poche. L’astensione che gli ha garantito Albert Rivera servirà a poco ed è pura utopia sperare in un appoggio dei nazionalisti baschi e catalani, che si oppongono fermamente alle riforme centraliste difese da PP e Ciudadanos.

I possibili scenari sono essenzialmente tre. Il primo è uno scenario portoghese con un governo socialista di minoranza frutto di un’ampia alleanza con le altre formazioni di sinistra (Podemos e IU) e l’appoggio dei nazionalisti baschi e/o catalani. Non è facile, ma è possibile, almeno sulla carta. Il secondo è uno scenario greco (la Grecia del giugno 2012) con una grosse koalition PP-PSOE – mai avuta in Spagna finora – che potrebbe contare con una figura super partes come presidente (lo permette l’articolo 99 della Costituzione spagnola). Sarebbe un’opzione gradita ai mercati, che oggi hanno castigato quello che il Financial Times ha definito senza mezzi termini uno scenario di “instabilità politica”: lunedì la borsa di Madrid ha perso il 3,6% (comunque, tutti i day after delle elezioni politiche spagnole è successo lo stesso, anche nel 2011 con la maggioranza assoluta del PP) e lo spread è salito a quota 124 punti rispetto ai Bund tedeschi. Ma sarebbe un’opzione gradita anche ad alcuni settori del PSOE, in primis l’ex presidente Felipe González, che ha coniato l’espressione di “un’Italia senza italiani” per definire la Spagna del 2015 e la frammentazione politica in ambito locale, regionale e ora anche nazionale. González spingerebbe perché siano PP e PSOE ad avviare una riforma costituzionale “controllata”. Non sommando però i due terzi delle Cortes (233 deputati), dovrebbero coinvolgere anche Ciudadanos, ma non pare ci siano difficoltà da questo punto di vista. Il terzo scenario è quello della Grecia del maggio 2012: nuove elezioni.

In tutti e tre i casi sarà il PSOE a giocare un ruolo chiave e dovrà decidere se andare a sinistra e promuovere un cambiamento anche nella struttura territoriale dello stato oppure fare reset e ripetere le elezioni, sperando in una situazione meno complessa, o, ancora, allearsi con i popolari per puntellare il sistema, coinvolgendo anche Ciudadanos. Ma in una grosse koalition il rischio reale per i socialisti è quello di fare la fine del PASOK e di subire in un futuro non troppo lontano il sorpasso di Podemos. Per il momento Pedro Sánchez ha affermato che il suo partito non voterà per Rajoy e non faciliterà, nemmeno con un’astensione, la formazione di un governo di minoranza dei popolari, ma César Luena, numero due di Sánchez, ha considerato che è ancora troppo presto per valutare la possibilità di maggioranze alternative al PP.

C’è grandissima incertezza e tutte le porte sono ancora aperte. Il nuovo Parlamento si insedierà il 13 gennaio, poi il Re avviarà le consultazioni con i partiti e probabilmente prima della fine del mese si celebrerà la prima votazione dove sarà necessaria la maggioranza assoluta (176 voti) e, due giorni dopo, la seconda votazione in cui basterà la maggioranza semplice. Dalla prima votazione ci saranno due mesi di tempo per formare governo, altrimenti si andrà a nuove elezioni. Avrà un ruolo importante il nuovo monarca, Felipe VI, ma un peso non secondario nelle decisioni lo avrà anche la situazione catalana, dove gli indipendentisti guidati da Artur Mas stanno cercando di formare governo con l’appoggio degli anticapitalisti della CUP. Un governo indipendentista a Barcellona favorirebbe un governo di grande coalizione a Madrid?

Le trattative in Catalogna durano da quasi tre mesi e il tempo stringe: se il 10 gennaio Mas e la CUP non raggiungono un accordo si dovranno convocare nuove elezioni regionali nel mese di marzo. Il punto è capire se e quanto peseranno i risultati di domenica sulle trattative in Catalogna: la complessa situazione spagnola favorirà un accordo strategico tra Mas e la CUP per un’accelerazione indipendentista? O, al contrario, si cercherà un’altra via d’uscita a un vicolo che pare cieco? La vittoria di En Comú Podem e la dura débacle di Convergència, il partito di Mas, dimostrano che la via di un referendum legale sullo stile scozzese (difesa da Podemos) è quella che ottiene i maggiori consensi in Catalogna e che rappresenta il paese reale. In ogni caso, le decisioni che si prenderanno a Barcellona peseranno molto sulla situazione spagnola e viceversa.

Una nuova tappa: il ruolo di Podemos

Il 20 dicembre ha sancito quel che si veniva dicendo dall’inizio del 2015: per la Spagna si è concluso un ciclo politico segnato dalle maggioranze assolute, da governi monocolore e dal bipartitismo e se ne è aperta un’altra in cui i punti di domanda sono ancora molti. Quello che è certo è che, come in ambito locale e regionale in primavera, anche in ambito nazionale i partiti spagnoli dovranno abituarsi alla necessità di accordi e patti.
Un altro dato importante riguarda il panorama che hanno offerto questi risultati elettorali. La Spagna va a due velocità: nelle zone rurali il bipartitismo resiste e, anche grazie alla legge elettorale, perde pochi seggi a favore dei nuovi partiti, mentre nelle zone urbane si è instaurato ormai un sistema pluripartitista, con gli emergenti, in alcuni casi, come prima o seconda forza e PP e PSOE relegati anche al terzo e quarto posto.

La frattura non è però solo tra città e campagna, ma anche tra centro e periferia. Il centro, tranne Madrid – dove è arrivata l’onda lunga di Podemos per quanto il PP si sia mantenuto primo partito –, è rimasto legato al bipartitismo (la Castiglia e Leon, la Castiglia La Mancia, La Rioja, l’Estremadura e anche, seppur in modo diverso, l’Andalusia), mentre nella periferia (Galizia, Paesi Baschi, Navarra, Catalogna, Valencia e Baleari) si è verificato un cambio strutturale, annunciato già a maggio nelle amministrative. Domenica ha vinto la Spagna plurale che, senza desideri di rottura e secessioni, vuole un cambiamento profondo della struttura e del sistema politico del paese. Per dirla con le parole pronunciate da Pablo Iglesias, “la Spagna plurinazionale ha votato cambiamento e riforma”.

Podemos ha capito molto bene queste fratture e, rinvigorendo lo spirito del movimento del 15-M, quelli che in Italia si conoscono come indignados, vi si è inserito. Gli accordi stretti in Catalogna, Galizia e nella regione valenzana con le formazioni della sinistra locale e le liste civiche vincenti a maggio in molti comuni sono stati una scelta tattica e strategica intelligente e i risultati ne sono la prova: En Comú Podem è primo partito in Catalogna con la figura trainante di Ada Colau, la sindachessa di Barcellona, che si è convertita in un dirigente politico capace, carismatico e stimato, mentre En Marea – la confluenza di Podemos, Anova e Esquerda Unida – e Compromís-Podemos-Es el moment – la lista frutto dell’alleanza tra Podemos e i regionalisti di sinistra di Compromís – sono il secondo partito sia in Galizia che nella regione di Valencia. L’aver compreso il fenomeno “territorialità” è stato chiave, tanto che queste tre liste formeranno gruppo proprio nel Parlamento. Ma i successi di Podemos non si fermano qui: primo partito in voti nei Paesi Baschi, secondo partito nelle Canarie, in Navarra e nella regione di Madrid, ottimi risultati nei grandi comuni, soprattutto nelle “città del cambio” dove stanno governando da sei mesi. Probabilmente, se si fosse raggiunto l’accordo con Izquierda Unida (920 mila voti), i risultati sarebbero stati ancora maggiori e il sorpasso al PSOE sarebbe stato una realtà.

Podemos ha dimostrato di saper leggere molto bene la situazione e di saper fare politica sul serio. Il partito guidato da Pablo Iglesias non ha nulla a che fare con il populismo e non è anti-europeo, come spesso si sente ripetere; la sua storia, il suo discorso e la sua pratica politica in questi due anni hanno dimostrato che non è comparabile con i Cinque Stelle nostrani e men che meno con l’UKIP o il Front National della Le Pen, come qualche osservatore italiano ha scritto.

Il partito ha un’equipe dirigente capace e preparata, è ben radicato sul territorio e ha capito le differenze territoriali e nazionali della Spagna. Questo è e sarà il punto chiave. Per ora Iglesias non ha parlato di possibili accordi post-elettorali, ma ha messo sul piatto la necessità di una nuova transizione, in riferimento alla transizione dal franchismo alla democrazia della seconda metà degli anni Settanta, con una riforma della costituzione centrata su tre punti: una riforma elettorale, l’inclusione dei diritti sociali e l’approvazione di un meccanismo di revoca da parte della cittadinanza nel caso in cui il governo non rispetti il proprio programma.

Ma la strada, in questo senso, è in salita, non solo per la difficoltà di arrivare a un accordo con PSOE, IU e altri partiti per poter formare governo, ma anche perché nel caso di una riforma elettorale sono necessari i due terzi dei voti nel Parlamento e il PP con i suoi 123 deputati potrebbe bloccare ogni iniziativa. Se poi si riuscisse a superare anche questo scoglio, ci sarebbe quello del Senato, in cui il PP ha la maggioranza assoluta (124 senatori su 208). Il Senato in Spagna è una camera con poco potere, tanto che la sua riforma è nell’aria da tempo; ma per una riforma della Costituzione sono necessari i due terzi dei voti favorevoli anche dei senatori, indi per cui qualsiasi progetto di riforma costituzionale, succeda quel che succeda nella formazione del nuovo governo, deve contare con l’appoggio anche del partito di Mariano Rajoy.

Domenica per la Spagna si è aperto un periodo del tutto nuovo. Un periodo incerto, complesso, difficile. Un periodo dove si possono porre le fondamenta di un importante cambiamento politico, sociale e della struttura territoriale del paese iberico.

 

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