di Federico Zappini *
(27 febbraio 2016) In molti hanno detto la loro sabato scorso al Brennero. Silvano Bert – con la consueta pacatezza – ha saputo centrare meglio di tutti la questione. “Non credo che i confini si possano abolire, perchè confine può voler dire anche avere un territorio in comune. Io sono qui per favorire il dialogo.” Le sue parole sono un monito, un avvertimento per un dibattito che, nato dentro i codici emergenziali imposti del contesto politico e sociale di questo tempo, si pretende (a torto) di poter risolvere con interventi anch’essi di natura emergenziale. Alzare solidi muri da un lato, rivendicare l’abbattimento di ogni limite dall’altro. Due letture eccessivamente semplificate, che non ci aiutano nella comprensione di una fase storica di rara complessità come quella che stiamo affrontando.
La corsa degli Stati europei a costruire barriere “anti-profughi” sulle proprie linee di confine, il costante richiamo a sovranità da riaffermare (nel caso Brexit, un pericoloso precedente), l’assenza di visione comune su qualsiasi tema sono sintomi di un malessere che non ha più le caratteristiche della difficoltà passeggera ma della crisi strutturale, di progetto e di valori. L’Europa diventa quindi automaticamente soggetto terzo da sé con il quale trattare per la difesa dei propri interessi o – nel peggiore dei casi – contro il quale scagliarsi per denunciarne l’inefficienza o l’inutilità, diagnosticandone la fine. “Gli anni spensierati sono alle spalle” afferma in una bella lettera Andrea Seibel, descivendo l’attuale stato dell’Unione.
Come darle torto, così come quando consiglia – rivolgendosi alle forze democratiche europee – di “trovare risposte alle paure delle popolazioni, anziché limitarsi a giocare di rimessa, altrimenti lo spirito del populismo non tornerà mai nella bottiglia.”
Servono ipotesi radicali perchè la difesa, a tratti nostalgica, del ricordo di quegli “anni spensierati” (sempre dando per scontato che spensierati lo siano stati davvero) non basta a fare fronte alla sfida che ci aspetta. Non è sufficiente affermare “don’t touch my Schengen” perchè l’accordo di libera circolazione dei capitali, delle merci e dei cittadini dentro i confini interni (in una logica di allargamento del mercato, rivendicata in questi giorni a gran voce da autotrasporti e albergatori) si fondava sulla capacità di rendere invece impermeabili quelli esterni per chi tentava di superarli, dando forma a quella che da anni viene descritta come Fortezza Europa. Lo stesso meccanismo che – se vogliamo mettere da parte ogni tipo di ipocrisia – si vorrebbe riaffermare con l’esternalizzazione, a peso d’oro, del ruolo di controllo e filtro dei flussi migratori ai paesi confinanti, dalla Turchia alla Libia. Per dei limiti che abbiamo provato a non far valer per noi ne abbiamo istituiti di nuovi per agli altri, producendo esclusione, dolore e morte.
A ben vedere non sembra reggere neppure – anche se richiama il pensiero di uno dei sostenitori più appassionati del progetto europeo, Alexander Langer – l’assunto “non muri, ma ponti”. Mancano oggi le condizioni basilari per la costruzione di infrastrutture solide, non destinate a crollare alla prima oscillazione. Una sponda (quella europea) vive nella paura, figlia di un contagio che Emanuele Trevi bene descrive sul numero del 14 febbraio de La Lettura e che rende il terreno franoso, per nulla stabile, perennemente attraversato da fenomeni virali capaci di scompaginare i già fragili equilibri esistenti. L’altra sponda (rappresentazione dei mondi che ci circondano) non gode di miglior salute e da essa ci divide un impressionante dislivello, dato dalla crescente diseguaglianza nella redistribuzione delle ricchezze e dalla diffusa instabilità geopolitica, che ne rende difficilissimo l’avvicinamento prima e una vera connessione dopo. Sono questi gli esiti – se vogliamo continuare a parlare di limiti, in questo caso abbattuti – della folle idea che la curva della crescita economica – quella che ha riguardato negli ultimi decenni l’intero Occidente – potesse proseguire verso l’alto all’infinito senza presentarci un giorno il conto, nella forma dell’insostenibilità ambientale e sociale del modello di sviluppo capitalista, di crisi sempre più ravvicinate e difficili da circoscrivere e superare, di esodi epocali di uomini e donne alla ricerca di una condizione di vita dignitosa. Sempre Trevi, citando Tito Livio, invoca la nascita di “una forza contraria là dove tutto cospira alla fine: un contagio nel contagio”.
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – scrivendo il loro Manifesto da Ventotene – coltivavano proprio l’ambizione di essere interpreti di un contagio virtuoso che portasse alla nascita di un’Europa libera e unita, al riparo dagli spiriti nazionalistici e dai venti di guerra. Progetto questo che trovò la sua realizzazione (solo parziale) quando la tragedia del conflitto mondiale fu alle spalle e leadership lungimiranti seppero interpretare non lo spirito del tempo presente, ma quello di un futuro desiderabile. Oggi ci troviamo in condizioni simili. Riemergono muri fisici che rendono l’Europa lacerata e inospitale, si fatica a trovare un limes condiviso dentro il quale elaborare scenari che vedano ognuno protagonista alla pari pur nelle differenze, persino nei possibili conflitti. Ecco perchè il tornare in superficie del tema del limite oggi richiede una particolare riflessione nel saperne leggere i vari significati. Non accettandone in silenzio il potere divisivo e respingente, ma neppure negandone l’utilità laddove se ne riscopra sinceramente il ruolo di luogo della condivisione e del confronto tra territori, nella definizione di relazioni e sinergie a scavalco delle appartenenze geografiche, etniche, linguistiche, culturali o religiose.
Régis Debray, nel suo bel “Elogio delle frontiere”, dice: “Le frontiere attendono il loro comitato etico. Soltanto quelle leali dovrebbero essere ammesse: bene in vista, dichiarate e a doppio senso, in grado di attestare agli occhi di ciascuna parte che l’altro esiste, veramente.” Questo è l’approccio – eretico e visionario – con cui dovremmo avvicinarci in questi giorni al Brennero e a tutti i confini d’Europa, con l’obiettivo di renderli mobili, porosi, costantemente ridefiniti e ridefinibili. Torniamo a prenderci cura dei limiti primi che sia troppo tardi…
* dal blog Ponti di vista https://pontidivista.wordpress.com