"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
(11 marzo 2016) Postmodernità. Ho usato spesso negli ultimi anni questa espressione per descrivere nuovi scenari e nuove guerre. A cominciare dalla consapevolezza, maturata nel tempo della mia assidua frequentazione, su quanto era accaduto nell'area balcanica e poi, via via, nelle vicende che dalla Somalia alla Libia hanno attraversato il mondo intero.
Quando pongo la necessità di oltrepassare il Novecento, ne parlavo anche nei giorni scorsi con gli studenti e gli insegnanti dell'Istituto Tambosi-Battisti di Trento, mi riferisco proprio allo scarto necessario fra un tempo nuovo e per molti versi inedito e le categorie analitiche che non sono più in grado di leggerlo. “Non più e non ancora...” per richiamare un'altra espressione a me cara.
Quanto sta avvenendo in Libia rappresenta uno scenario tipico della postmodernità. Non è solo la dissoluzione di uno stato. La deregolazione è totale, il diritto naturale (la legge del più forte) ha preso il posto dello stato di diritto, il monopolio della forza non c'è più da tempo, scompare il pensiero e non ci sono più motivazioni nobili che muovono l'agire umano collettivo, la politica è ridotta a rappresentazione clanistica e interesse privato.
Consideriamo inoltre che tutto questo avviene in un paese straordinariamente ricco di materie prime1 e di risorse finanziarie e disseminate nei paradisi fiscali e nel cloud del mercato finanziario globale2, il cui (tentativo di) controllo non è affatto estraneo alla guerra che portò nel 2011 alla deposizione di Gheddafi, guerra voluta dalla Francia e dalla Gran Bretagna, con il sostegno attivo dell'Italia3. L'esito è sotto gli occhi di tutti.
Un quadro davvero fosco e oltremodo complicato, ma che ci racconta di una tendenza non certo riconducibile alla sola Libia. La postmodernità, questo mix di neoliberismo e di neofeudalesimo, rappresenta uno scenario che si diffonde nelle pieghe della crisi come un virus che si nutre della fine di una storia, dell'esito catastrofico (e non elaborato) del Novecento, dell'incapacità da parte della politica e prima ancora del pensiero di immaginare un progetto politico per il terzo millennio.
Basta guardarsi attorno. Cosa sono diventati i paesi post comunisti (non oso nemmeno immaginare quel che accadrà quando l'intruglio cinese salterà), qual è lo scenario africano senza un progetto di unione politica... come sono ridotti i paesi latino americani fra populismo autoritario e criminalità organizzata... cosa sta accadendo negli Stati Uniti se un personaggio come Trump vince le primarie dei repubblicani... cosa rimane del progetto politico europeo, in un'Europa sempre più in frantumi ed in preda alle paure. L'angelus novus avrebbe gli occhi ancor più spalancati...
La guerra di cui parla Papa Francesco non è dunque riconducibile semplicemente ai tanti conflitti armati che pure insanguinano il pianeta. Ha a che fare con la fine dell'umanesimo e nell'affermata indisponibilità a negoziare il proprio stile di vita. Nell'intreccio delle crisi, nell'insostenibilità dell'attuale modello di consumo delle risorse, nell'interdipendenza del tempo, la guerra di cui parla Papa Francesco è già in corso. E nemmeno ce ne stiamo accorgendo.
1Le risorse petrolifere libiche sono stimate in 60 miliardi di barili (3,5% delle riserve mondiali), quelle del gas dovrebbero ammontare a 1.500 miliardi di metri cubi.
2 «...Le partecipazioni del fondo sovrano Libyan Investment Authority (Lia) oggi valgono almeno 50 miliardi di dollari, anche se da anni manca una contabilità ufficiale. La lista dei titoli nel portafoglio della Lia fu resa nota nel 2011 dal miliardario franco-tunisino Tarak Ben Ammar, quando durante la rivoluzione emerse che una sua società maltese era in affari con la Lia di Gheddafi e con Trefinance, una controllata lussemburghese della Fininvest. E quell'elenco è lunghissimo, perché il regime di Gheddafi è crollato prima di riuscire a smobilizzare le sue partecipazioni e da allora nessuno sembra averne il controllo: quel portafoglio fu prima congelato su mandato internazionale, poi scongelato nel 2012 e da allora nessuno sembra davvero disporne. Il fondo sovrano libico ha il 3,2% di Pearson, il gruppo proprietario del Financial Times e co-proprietario dell' Economist, ha quote in società americane della difesa come Halliburton o del petrolio come Chevron e Exxon Mobil. In Francia è presente in un altro gruppo della difesa-aerospazio come Lagardère. E in Italia ha quote in alcuni dei gruppi maggiori. Dell'Eni la Lia ha probabilmente ancora l'1%; di Unicredit la banca centrale libica ha il 2,92 ed è il quinto socio; di Finmeccanica, il gruppo della difesa controllato dal Tesoro di Roma, la Lia ha il 2,01%. Ci sono poi ovviamente società minori come il gruppo milanese di tecnologie delle telecomunicazioni Retelit, del quale la Società libica di Poste e Telecomunicazioni ha il 14,8% ed è il primo azionista. Della Juventus invece la quota libica è ormai diluita sotto al 2%. Poi c'è la Banca centrale libica, molto più ricca e liquida del fondo sovrano: dispone di conti per circa 100 miliardi di dollari, frutto di decenni di surplus petroliferi, e quel tesoro giace in decine di depositi bancari in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. Secondo alcuni osservatori (...) la banca centrale di Tripoli ha conti aperti a Unicredit, Intesa Sanpaolo, Bnp Paribas, Société Générale, Credit Agricole, e poi a Londra alla Hsbc, a Barclays e al Lloyd; a Wall Street, resta un conto alla Bank of New York Mellon...». Da www.repubblica.it (archivio)
3«Non uno sbaglio, ma un errore tragico!Non ho mai visto un paese pagare per una guerra fatta contro se stesso». Romano Prodi, Missione Incompiuta. Laterza, 2015
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