Queste alcune riflessioni a margine dell’incontro pubblico dal titolo “Frontiere, confini, migrazioni, cittadinanze” alla presenza dell’Onorevole Cecile Kyenge. Nella stessa giornata è stato presentato il Progetto di relazione di cui l’on. Kyenge è relatrice presso il Parlamento Europeo.
di Federico Zappini
(15 marzo 2016) La quantità di informazioni e immagini che quotidianamente ci arrivano dai fronti più caldi delle rotte migratorie finisce per travolgere ogni tentativo di fermarsi a riflettere a fondo sui fenomeni che telecamere inquadrano e taccuini appuntano. Fatichiamo ad andare oltre la cronaca, il dibattito politico e pubblico appare saturo. Film, documentari e inchieste (sempre più numerosi e premiati) costituiscono una fondamentale offerta per la conoscenza. Il tempo dedicato all’osservazione – più o meno attenta, più o meno consapevole, più o meno spettacolarizzita – rischia di fagocitare lo spazio dell’analisi e della comprensione profonda. Di pari passo il profluvio di discussioni – dalle trattative in sede europea ai “confronti” ospitati dai talk show – si muove dentro lo schizofrenico racconto di un’emergenza che non possiede più le caratteristiche (se mai le ha avute) per essere interpretata e affrontata come tale. Se così si può dire, stupisce che ci si stupisca che milioni di persone – con trend in ulteriore crescita – tentino di muoversi da un punto all’altra del pianeta nel legittimo tentativo di migliorare le proprie condizioni di vita.
Il vizio di partenza sta qui, nel non accettare la radicale (non iniziata oggi) mutazione delle condizioni globali e insieme locali. Trasformazioni tanto estreme e repentine, oltre che geograficamente diffuse e allo stesso tempo interconnesse, da rendere inefficaci gli strumenti che fino a poco tempo fa ci potevano apparire – probabilmente a torto – adatti. Ecco perché l’ambizione di “governare” o “gestire” appare figlia di un errato approccio al fenomeno. Ogni tentativo viene messo in scacco da sempre più frequenti crisi che – se sommate tra loro – rappresentano la nuova forma di (dis)equilibrio dentro la quale siamo chiamati a muoverci. Non basterà cambiare il paradigma, sempre che lo si voglia fare davvero, delle sole politiche migratorie perché oggi chi migra – sia esso profugo o migrante economico – porta con se un messaggio più profondo, un campanello d’allarme che dovremmo sentire nitido e che invece tendiamo a rimuovere.
“Il fenomeno delle migrazioni sta diventando un processo mondiale che il nostro sistema di vita non è capace di ordinare. Quelle fiumane di gente sventurata che chiede solo di poter vivere potrebbero diventare così grandi da rendere oggettivamente difficile dar loro la possibilità di vivere. Forse quelle migrazioni sono l’avanguardia oscura di un grande e non lontano cambiamento simile alla fine del mondo antico, un cambiamento che non riusciamo a immaginare. I nuovi, arroganti e beoti padroni della terra si illudono che il loro dominio, i loro bottoni che spostano a piacere uomini, cose, ricchezza e povertà, sia destinato a durare in eterno. Esso potrebbe crollare come è crollata Babilonia e i migranti di oggi o meglio i loro prossimi discendenti si aggireranno fra le rovine della ricchezza tracotante e volatilizzata come un tempo i barbari fra le colonne e i templi abbandonati.”
**Claudio Magris
Stupisce quindi che ci si continui a chiedere se, e dentro quali contorni, siano sostenibili i flussi migratori verso l’Europa, senza mai arrivare a domandarsi se a non essere sostenibili non siano invece le cause scatenanti delle migrazioni? Guerre, diseguaglianze nella distribuzione delle ricchezze e nell’accesso alle risorse, inquinamento e cambiamenti climatici, apologia della crescita economica sono forse compatibili con l’idea di un mondo diverso da quello contemporaneo, segnato da sempre più frequenti conflitti (politici, militari, economici, ambientali) ai quali nessuno è in grado di dare risposte di lungo periodo?
“Gli anni felici, gli anni spensierati e sereni sembrano passati. Ma non furono anche anni di troppo facile ottimismo, anni di illusione? L’Europa crede di essere senza confini, ma urta di continuo nei suoi limiti, anche in quelli della sua onestà e credibilità. La crisi di cui oggi siamo testimoni, si tratti della Brexit, dei profughi, della struttura interna dell’Ue, investe i fondamenti. Tuttavia, i discorsi su “più Europa”, “Europa senza confini” o “solidarietà” si dimostrano vuoti e pericolosi. È sempre lo stesso sound.”
**Andrea Siebel
Mentre Mario Draghi – probabilmente in memoria proprio degli anni spensierati – utilizza le ultime munizioni della BCE per stimolare “con ogni mezzo” consumi e crescita, l’Europa si scopre fragile e frammentata quando deve fare i conti con i propri limiti. Quelli geografici, che settori sempre più ampi di cittadini chiedono di ripristinare sotto la spinta di una pressante richiesta di sicurezza e di una – neppure troppo sottintesa – volontà di esclusione. Quelli legati ai modelli di sviluppo, che ancora non accettiamo di mettere seriamente in discussione, in quanto passaggio fondamentale per iniziare ad affrontare a monte le motivazioni che costringono milioni di persone alla scelta obbligata di fuggire dai propri paesi d’origine.
Sul concetto di limite e sulla sua declinazione politica si gioca molto del nostro futuro. Chissà se ne sapremo cogliere la complessità.
“Parfois, au sein même des périodes noires des graines d’espoir surgissent. Le comprendre, c’est l’esprit de complexité.”
**Edgar Morin
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