"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
(12 maggio 2016) La normativa sulle Unioni civili è da ieri legge dello Stato italiano. Con un voto a larga maggioranza la Camera dei Deputati ha approvato il testo licenziato dal Senato che pure aveva prodotto qualche strascico polemico per aver lasciato fuori le norme sulle adozioni. Si tratta di un passo importante, che pone fine ad una insopportabile discriminazione sia verso le coppie omosessuali che verso quelle di fatto. Non finiranno, invece, le polemiche considerato che attorno a questa normativa la destra populista – intravvedendo la possibilità di utilizzare il tema della famiglia come arma di scontro e di consenso politico elettorale – ha già annunciato ostruzionismo diffuso, obiezione di coscienza e una propria iniziativa referendaria. Il ritorno ad una contrapposizione fra credenti e laici non mi sembra affatto uno scenario desiderabile, con l'effetto di imbarbarire ancora di più un clima politico già oltremodo degradato. In questo senso ho trovato di grande valore l'intervento di Massimo Cacciari, apparso nelle scorse settimane sulla rubrica “Parole nel vuoto” del settimanale “L'Espresso”, che ho pensato di riprendere. (m.n.)
di Massimo Cacciari
Accade, di rado fortunatamente, che la politica e l’attività legislativa si imbattano in problemi di straordinaria complessità storica e culturale. Sarebbe certo, allora, auspicabile il massimamente improbabile, e cioè una certa consapevolezza che le questioni che si affrontano investono forme di vita e di civiltà, mutamenti di portata antropologica e non qualche moda passeggera.
È il caso degli attuali dibattiti, più o meno piazzaioli, sulle unioni civili, tema che assume il proprio significato soltanto se inserito nel drammatico contesto del rapporto attuale tra scienza-tecnica, politica e vita. Discutere di un aspetto di tale relazione astraendo dagli altri e dall’intero è la follia che ci condurrà ciechi e inconsapevoli chissà dove.
Una certa forma dell’istituto famigliare appartiene a un sistema di relazioni tra persone e generazioni, a un ordine e a gerarchie determinanti per un’intera civiltà. Che essa venga meno, non sia più avvertita come “necessaria”, è sintomo evidente del tramonto di quest’ultima. E le civiltà come nascono anche finiscono. Sarebbe salutare riconoscerlo, prima di decidere se ciò sia un bene o un male.
La nostra storia è stata segnata dall’idea del matrimonio, in quanto istituto giuridicamente normato, come unione di maschio e femmina. In Grecia o anche a Roma nessuno si scandalizzava certo di rapporti omosessuali, ma mai si è pensato che potessero dar vita a “famiglie”. Si dice: ecco appunto, il mutamento radicale che stiamo vivendo contrasta con la natura propria dell’istituto famigliare. Ma “naturale” nell’assetto tradizionale di quest’ultimo non è semplicemente il rapporto maschio-femmina, bensì anche la gerarchia al suo interno, la patria potestas che lo regge, la parte attiva in ogni senso che è chiamato a svolgervi, rispetto alla donna, il maschio. Come essere tanto sprovveduti dal volere, almeno a parole, che queste relazioni vengano completamente rivoluzionate, poiché “innaturali”, e, a un tempo, che la forma giuridica del matrimonio possa restare invece intatta?
Penso che soprattutto i cattolici dovrebbero riflettere su questo aspetto: proprio il cristianesimo, almeno nel suo messaggio più originario e autentico, ha sconvolto la “naturale sublimazione” del potere maschile.
Non si tratta di dogmatiche astratte, di “sesso degli angeli”, ma di colossali rivoluzioni che giungono a informare di sé sensibilità e immaginazione: inizia senza dubbio col cristianesimo un’età in cui Donna e Figlio sconvolgono dalle fondamenta la percezione e la vita reale dell’istituto famigliare classico.
Noi viviamo probabilmente il momento ultimo di questa rivoluzione, in cui ogni “legge naturale” è interpretata alla luce dell’amore e sottoposta al “nomos tes agapes”, alla “legge” paradossale di quest’ultimo. Folle declinare tutto ciò, come certo sembra avvenire, in termini sentimentali o appellandosi alla semplice libertà dell’arbitrio.
Ma sarebbe molto più coerente da parte di un “pagano” che di un cristiano difendere l’assetto tradizionale della famiglia appellandosi a Madre Natura. Per un “pagano” era naturale la subordinazione della donna e dei figli, come lo era il rapporto omosessuale, come lo era l’idea che la vita non avesse un valore in sé. È lui che, in generale, si ritiene in armonia con la natura.
È col sovrannaturale che il cristiano spera contro ogni speranza di potersi conciliare. Ed è su questo metro che egli dovrebbe giudicare dei comportamenti e delle leggi della civitas hominis, non su una qualsiasi forma di “naturalismo”. Il cristiano tradisce se stesso quando si fa rappresentante della Natura; vi è cosa più “innaturale” di porgere l’altra guancia a chi ci colpisce, di amare il proprio nemico, di affermare che il Regno è dei più miserabili?
Grandioso segno di contraddizione con il “naturale” è l’annuncio cristiano. Annuncio di libertà dal “naturale” da cui certamente ha inizia il nostro Evo; pensare di arrestarne la corrente su questo o quel punto è, forse pietosa, illusione.
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