"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

L’Europa non sa invecchiare… ma potrebbe imparare

Sguardo mediterraneo

di Tonino Perna

(7 giugno 2016) Sapere invecchiare è un’arte. Significa fare i conti con le energie che vengono meno, con la paura del giorno finale, con il rimpianto per “i bei giorni che furono”, come nella nota commedia di Samuel Beckett. Come diceva Noberto Bobbio il brutto della vecchiaia non è solo la memoria che si perde, ma che tutto diventa più lento e faticoso.

L‘Europa è diventata come una vecchia isterica che vive di paure, si fa prendere facilmente dal panico, cerca di esorcizzare la morte che si avvicina imbellettandosi con lustrini di eventi spettacolari, grandi opere e Quantitative Easing. Assomiglia, perdonate il riferimento personale, ad una mia vecchia zia che viveva all’Eur, splendida persona, femminista ante litteram, che dagli anni ’90 ho visto rinchiudersi sempre più in casa, far mettere sbarre alle finestre, porte blindate, e vivere nel terrore degli immigrati e dei rom.

«L’Unione Europea - ha detto Laura Boldrini durante la manifestazione dell’8 maggio “No ai muri, sì all’Europa dei diritti” - oggi è come una macchina d’epoca, bella e gloriosa, il cui motore però procede ormai a singhiozzo. Quest’automobile, questo motore, sono vecchi, sono antichi e vanno dunque sostituiti con un modello nuovo, sostenibile, più competitivo, in grado di portarci lontano e suscitare la passione delle nuove generazioni». Ha replicato subito il superleghista Calderoli, responsabile morale dell’eccidio avvenuto in Libia alcuni anni fa: «Più che d’epoca la Ue è un’auto da rottamare».

A nostro modesto avviso, più che di un nuovo motore l’Ue ha bisogno di un trapianto di cuore. Di un cuore umano, e non di “un cuore di cane” come nel romanzo di Bulgakov, l’autore del capolavoro “Il maestro e Margherita”. Deve soprattutto accettare di aver perso il ruolo di potenza economica di prima grandezza per assumere un ruolo nuovo: quello di un centro che promuove la pace, la sostenibilità ambientale, la cultura e le arti, un’Altreconomia capace di rispondere ai mutamenti tecnologici, di ridistribuire il lavoro, la ricchezza, le opportunità, la qualità della vita.

Per assumere questo nuovo ruolo sulla scena mondiale l’Ue non può conseguirlo chiudendosi in sé stessa. Questo è stato il primo motivo per cui è stato ridimensionato il welfare nel Nord Europa, ancor prima della crisi del 2008. E’ stato il peccato mortale della socialdemocrazia, come ha spiegato più volte Bruno Amoroso, l’aver pensato di costruire un welfare State basato sul surplus drenato dai paesi del sud del mondo, attraverso lo scambio ineguale che ha caratterizzato, e in parte continua a segnare, i rapporti Nord/Sud. Un modello che non ha retto all’arrivo dei popoli del Sud del mondo che volevano partecipare al lauto banchetto, godere dei diritti civili e sociali che nei loro paesi gli sono negati. Ma, il modello socialdemocratico era stato pensato per quel ridotto numero di abitanti, con una cultura calvinista del lavoro, con il senso weberiano del Beruf, della missione che con il lavoro si persegue su questa terra. Ma quel modello sociale ed ha fatto sorgere, proprio tra le fasce popolari beneficiare del welfare, quel razzismo rabbioso di stampo neonazista che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni.

Sapere invecchiare significa fare i conti col proprio passato, senza infingimenti, guardando alla storia, alle proprie responsabilità, con onestà intellettuale. E l’Europa nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale l’ha fatto. Negli anni ’60 e ’70 una marea di pubblicazioni, film, opere d’arte, ci facevano prendere coscienza dello sfruttamento delle risorse del Terzo Mondo, del ruolo nefasto che ha avuto il colonialismo europeo, delle atrocità commesse e del debito con questi popoli da onorare. E’ con questa coscienza che è nata la cooperazione popolare, quella delle Ong, negli anni ’80 del secolo scorso, sostenuta finanziariamente dagli Stati europei e da una cultura terzomondista che si era diffusa anche nel mondo della scuola, tra i testi scolastici riscritti sotto questa luce. Poi, lentamente, sono emersi gli intellettuali della nuova destra Teo Con, spesso mascherati dal linguaggio e sapere “scientifico”, che hanno denunciato il malgoverno di questi paesi, a partire da quelli africani, e ridato valore e dignità alla colonizzazione che, secondo questa tesi, avrebbe portato progresso e civiltà. La parola d’ordine che cominciò a diffondersi, anche in una parte della sinistra, fu: basta col senso di colpa occidentale. Secondo questo approccio, la ricchezza gli europei, ed in generale l’uomo bianco, se la sono conquistata con sacrifici, abilità ed intelligenza, mentre in questi paesi del Terzo Mondo domina l’indolenza, il malaffare e la classe politica è tanto corrotta che molti rimpiangono il dominio dei coloni occidentali.

Lentamente questa visione è diventata luogo comune diffuso, paradossalmente intrecciandosi con una risposta alla globalizzazione economica che vedeva nel “locale” la possibile via d’uscita dall’omologazione culturale e dalla distruzione ambientale. Il localismo con tutti i suoi derivati (slow food, acquisti a km zero, autoproduzioni, ecc.) è stato ed è certamente un fatto positivo se non degenera, come sta avvenendo da un po’ di tempo, in indifferenza per quello che accade all’esterno del tuo giardino. Si spiega così la caduta di interesse che si è registrata negli ultimi dieci anni per il commercio equo e solidale, per i progetti delle Ong, per le pubblicazioni che riguardano i paesi e le aree più impoverite, per quelle disastrate dalle nostre guerre, per quelle che subiscono i danni ambientali del nostro modello di sviluppo imposto.

C’è da dire che la realtà geo-economica del mondo si è profondamente modificata. Fino agli anni ’80 del secolo scorso lo scarto Nord/Sud era evidente ed evidenziato nel famoso refrain: il Nord consuma l’80 per cento delle risorse del pianeta con il solo 20 per cento di popolazione. Oggi, le cose non stanno più esattamente così. La Cina è diventata il primo paese industriale al mondo e altre nuove potenze economiche sono emerse (India, Brasile,ecc.) e fanno concorrenza ai nostri prodotti industriali, facendo chiudere molte nostre imprese, magari dopo aver delocalizzato le produzioni in questi paesi, o in altri dell’est e sud del mondo. C’è ancora lo scarto tra paesi ricchi e poveri nella distribuzione del reddito, ma è molto più evidente e marcato quello all’interno di ciascun paese dove le diseguaglianze sociali sono cresciute spaventosamente.

E’ in questo nuovo scenario mondiale che va inquadrata oggi la questione dei nuovi flussi migratori a cui questa Europa bisbetica non sa rispondere. Se invece l’Ue imparasse a fare i conti con la realtà, a prendere atto che esistono processi strutturali ed irreversibili nel corso della storia umana, allora potrebbe usare tutte le sue risorse materiali ed intellettuali per dare delle risposte al presente, pensando al futuro. In due modi. Il primo passa per un progetto di accoglienza che non può essere solo una assistenza pubblica, sia pure dignitosa.

Come ho già proposto insieme ad altri in passato credo che, anche utilizzando i fondi Ue per l’agricoltura che sono ancora cospicui, si possa pensare ad un inserimento di migranti e indigeni nelle aree interne, nelle zone marginali dell’Europa mediterranea e non. Per l’Italia (ma anche per la Grecia, il Portogallo del nord ed il centro-sud della Spagna) bisognerebbe pensare ad una vera Riforma Agraria con la confisca delle terre abbandonate o incolte e l’inserimento di giovani europei e migranti in progetti mirati alla rinascita di queste terre. Non servono solo contadini per far rinascere queste aree interne e paesi abbandonati, ma anche artigiani, artisti, piccoli commercianti, professionisti, ecc. La seconda modalità passa necessariamente per un rilancio della cooperazione popolare, che coinvolga le associazioni , le ong e gli enti locali (come Recosol che da diversi anni implementa progetti autosostenibili in diversi paesi africani e latino-americani).

Non si tratta solo di far ripartire la parte migliore della cooperazione internazionale. Abbiamo bisogno di un impegno ben più rilevante e incisivo. Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione e pensare che ogni Stato della Ue possa stringere un Patto di amicizia e responsabilità con uno o più paesi africani ( o latinoamericani) che riguarda non solo gli aspetti economici, ma anche culturali, e metta in moto un meccanismo virtuoso che coinvolga da noi e nei paesi terzi una conoscenza reciproca (scuole ed Università), una integrazione economica vantaggiosa per entrambi (con il con il coinvolgimento della piccola e media impresa), una Alleanza per i Beni Comuni che coinvolga gli enti locali di entrambi i paesi e li impegni in questa direzione. Sarebbe bello ed entusiasmante immaginare una gara tra paesi europei tra chi avrà operato meglio nell’innalzare il livello e la qualità della vita in questi paesi, nel produrre una vera integrazione dei migranti in Europa, nel realizzare progetti di lungo periodo di grande utilità sociale. Insomma, una competizione qualitativa e solidale che è l’alternativa alla concorrenza distruttiva del capitalismo reale.

 

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