"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (51)
di Michele Nardelli
(25 luglio 2016) Più ci si avvicina al referendum autunnale, più ci si rende conto di quanto lacerante possa diventare questo voto, al cospetto di regole fondamentali che dovrebbero unire i cittadini piuttosto che dividerli.
Abbiamo recentemente dovuto prendere atto in altri paesi dell'Unione Europea di come lo strumento referendario sia quello meno adatto ad affrontare nodi che richiedono invece l'arte della mediazione, della ricerca di un punto d'incontro nel definire orientamenti che oltretutto influiscono non solo sul presente ma sul futuro di comunità ben più ampie di quelle chiamate ad esprimersi con il loro voto.
L'effetto Brexit ci indica, qualora non l'avessimo ancora compreso, come una scelta (qual è l'esito di un voto) non rimanga chiusa nei confini nazionali, perché in un contesto sempre più interdipendente è lo stesso concetto di sovranità ad essere messo in discussione, in virtù di scelte incomprimibili nell'orizzonte novecentesco degli stati nazionali.
Un contesto che richiede più politica, non meno politica. Più capacità di dialogo, non derive plebiscitarie. Più responsabilità, non il “si salvi chi può”. Ma soprattutto idee, nuovi approcci per affrontare il presente.
Se poi l'oggetto sottoposto al voto referendario è un insieme di proposte di modifica costituzionale su aspetti normativi fra loro almeno in parte disomogenei, si può comprendere quanto il voto di ottobre rischi di assumere significati diversi dal merito che la stessa riforma costituzionale pone.
Ho sperato che la Cassazione si pronunciasse per lo “spacchettamento” del quesito referendario (il voto per parti separate della riforma costituzionale), un quesito oltretutto fuorviante rispetto alla reale portata delle modifiche costituzionali che s'intendono introdurre. Che recita: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente "disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione", approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».
Che il bicameralismo perfetto dovesse essere superato in virtù di un Senato delle Regioni lo penso da almeno trent'anni, nella prospettiva di un federalismo che spostasse verso il basso (e verso l'Europa) l'esercizio di quote sempre maggiori di sovranità. Ma l'idea che un parlamentare sia utile solo per avere qualche favore tanto che riducendone il numero le istituzioni ci guadagnino, che i Consigli Regionali non servano a nulla se non a mantenere una casta di inetti e che i (pochi) poteri che sono in capo alle Regioni (comprese quelle “a statuto speciale”) debbano essere riassegnati allo stato centrale... è quanto di più populistico si possa sostenere.
So bene che la qualità di molti dei nostri rappresentanti lascia molto a desiderare e che la politica locale è spesso ridotta a fotocopia sbiadita del quadro nazionale, presidiata da “cacicchi” prevalentemente occupati alla gestione del voto di scambio, ma tutto questo non è affatto una buona ragione per demolire il valore della partecipazione politica, né delle prerogative di autogoverno dei territori.
Lo “spacchettamento” del referendum avrebbe permesso di dire dei sì e dei no di merito, evitando che la consultazione diventasse un plebiscito pro o contro il governo e il Presidente del Consiglio. Si è invece voluto andare ad una forzatura simbolica, tanto da parte del governo come delle opposizioni. E questo non farà bene né alla Costituzione, né alla politica, né tanto meno ad una società sempre più radicalizzata e divisa.
Ha probabilmente ragione Massimo Cacciari nell'affermare che ci sarebbe stato tutto il tempo per mettere mano al sistema istituzionale e che se ciò non è avvenuto lo dobbiamo ai conservatorismi di diverso segno politico che l'hanno impedito.
Ma le riforme che sarebbero state (e sono) necessarie alla nostra Carta Costituzionale avrebbero richiesto un ben altro approccio e di svilupparsi in almeno tre direzioni delle quali nell'attuale referendum invece non c'è traccia, semmai il contrario.
La prima poteva essere quella dell'Europa, ovvero di una Carta nella quale la sovranità venisse progressivamente trasferita verso quella dimensione sovranazionale che già oggi informa il nostro presente, laddove larga parte delle politiche “nazionali” e “locali” altro non sono se non l'applicazione delle direttive dell'Unione Europea.
La seconda avrebbe dovuto riguardare un più coraggioso spostamento di funzioni verso le Regioni ed il loro autogoverno, una sorta di riequilibrio fra la dimensione sovranazionale e quella territoriale, ovvero il contrario della revisione del Titolo V che invece riporta in capo allo Stato tutte le materie ritenute strategiche e che la timida riforma del 2001 aveva assegnato ai poteri locali.
La terza direzione avrebbe dovuto essere quella della cittadinanza, un ampio campo di questioni che investono tra l'altro le nuove forme partecipative, il ruolo dei corpi intermedi, la parità di genere, il servizio civile e, più in generale, i diritti/doveri delle persone...
Il coraggio delle riforme non può tradursi nel combinato disposto fra rafforzamento del potere esecutivo e leggi elettorali ultra maggioritarie.
E' cambiato il mondo, dovremmo immaginare nuovi scenari e spazi di azione politica europea (un sistema di difesa integrato che superi gli eserciti nazionali, un quadro di macro regioni europee oltre i confini statuali, un rapporto di cooperazione e di integrazione con l'area mediterranea...); dovremmo riscoprire il valore dei territori come chiave per responsabilizzare gli attori locali e valorizzare quelle straordinarie unicità per le quali questa parte d'Europa è conosciuta nel mondo e troppo spesso svilite e banalizzate; dovremmo agire sulle potenzialità umane affinché la conoscenza diventi il retroterra di una nuova partecipazione civica.
Il coraggio delle riforme avrebbe dovuto comportare altresì il mettere mano ad istituzioni anacronistiche, inutili e costose, a corporativismi consolidati, a privilegi delle tante caste (di cui la degenerazione della politica è solo un aspetto).
Il fatto di non averlo fatto sin qui costituisce certamente motivo di riflessione per la nostra generazione, ma a ben guardare questi stessi motivi di ritardo investono l'intera Europa e hanno a che fare più che con il fallimento di una classe dirigente con la necessità di fare i conti con i paradigmi di un secolo che ancora non abbiamo saputo elaborare.
L'esasperazione dei toni sul referendum di ottobre non ci aiuta a capire. Non c'è nessun golpe in arrivo e, per altro verso, il cambiamento è altra cosa. La riforma costituzionale del governo Renzi non è il “male minore” - come afferma Cacciari - ma semplicemente un approccio sbagliato (e fuorviante) che non ci aiuta ad affrontare i nodi veri che attraversano questo tempo in bilico fra il "non più" e il non ancora".
Per questo, soppesando i "pro" e i "contro" e nell'impossibilità di un voto separato, le ragioni del no a mio avviso prevalgono su quelle del sì.
Ma per favore evitiamo che questa diventi una guerra di religione e proviamo ad interrogarci sul cambio di prospettiva senza il quale continueremo a dividerci attorno ai paradigmi del passato.
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