di Federico Zappini **
Si commetterebbe un grave errore se dell’azione legale avviata dalla Provincia Autonoma di Trento nei confronti di sei componenti del Centro Sociale Bruno – volta al recupero di un presunto credito di circa 119.000 Euro – si prendesse in considerazione esclusivamente la dimensione giudiziaria. La si ridurrebbe – sbagliando – a una lunga e piuttosto noiosa telenovela, che conosce nel bel mezzo dell’estate 2016 l’ennesima puntata. E’ bene invece non perdere di vista l’atto scatenante (l’occupazione da parte di un gruppo di cittadini e cittadine dello stabile di Via Dogana a Trento) e l’atteggiamento che la politica trentina tiene nei confronti del necessario, e sempre più urgente, processo di recupero del patrimonio immobiliare che versa in stato di abbandono o degrado.
Anche per via di un contesto economico e culturale mutato radicalmente nell’ultimo lustro, quella attorno al riutilizzo di edifici in disuso non è più una discussione che si può ridurre nell’abusata dicotomia legalità/illegalità, laddove questa coppia semantica sia mai stata sufficiente a descrivere il nucleo filosofico/pratico capace di determinare il valore (o il disvalore) delle pratiche di occupazione e autogestione di spazi sociali. Ciò che più stupisce nella scelta della Giunta provinciale è proprio la linearità con cui affronta – dentro una pericolosa omologazione tra destra e sinistra, tra civici e autonomisti, tra democratici e leghisti – una questione che necessiterebbe invece un deciso salto di paradigma nell’interpretazione teorica prima e nell’elaborazione pratica poi.
Qualche esempio? Il Sindaco Luigi De Magistris a Napoli ha proposto l’uso civico – argomento certo non sconosciuto in Trentino – come strumento di gestione collettiva di una serie di edifici occupati in città. La nuova alcaldessa di Barcellona, Ada Colau, proprio dentro i movimenti impegnati contro la speculazione edilizia e per il diritto alla casa ha costruito alcune delle sue linee programmatiche orientate alla giustizia sociale, le stesse che la hanno condotta fino alla sorprendente elezione del 2015. Addirittura il Sindaco 5Stelle di Livorno Nogarin sta valutando l’opportunità, pur tra mille dubbi e apparentemente con le idee non del tutto chiare, di "requisire” strutture sfitte per far fronte a situazioni di grave emergenza abitativa.
Senza guardare a casi che potrebbero apparire “estremi”, basterebbe avere il coraggio e la curiosità di fare i conti con la diffusa mutazione di approccio nella gestione degli immobili inutilizzati, in nome almeno – lì dove non se ne comprenda fino in fondo il valore sociale, culturale e comunitario – di una valorizzazione e riorganizzazione delle proprietà pubbliche in un contesto (presente e futuro) di costante scarsità di risorse.
Bandi per la rigenerazione di fari, case cantoniere e stazioni ferroviarie. Beni confiscati alle mafie affidati ad associazioni, cooperative o gruppi informali di cittadini. Mappature dei beni comuni urbani e azioni collettive per la loro cura fanno oggi parte della naturale evoluzione dei sistemi di governance dentro un rapporto di ritrovata sussidiarietà tra amministratori e amministrati. Un’infinita di buone pratiche (più o meno conflittuali, più o meno codificate) si inseriscono oggi in una sterminata letteratura che conferma l’intuizione di Alejandro Aravena (curatore dell’edizione in corso della Biennale di Architettura) che dentro lo schema della pianificazione urbanistica al classico binomio pubblico/privato ha aggiunto la categoria del popolare. E proprio alle pratiche partecipative e all’attivazione della dimensione “popolare” – pur con mille limiti – è sempre stata orientata l’esperienza dell’occupazione di Via Dogana.
Si dirà che la delibera di Giunta è un atto dovuto, e probabilmente da un punto di vista formale è proprio così. Non si poteva fare altrimenti. Il giudizio della Corte dei Conti intimorisce oggi un Amministratore almeno quanto una serie di commenti negativi sui social network e sicuramente più del rischio di apparire più impegnato nella strettissima contingenza del “fare” che nel tentare di dare corpo a una propria organica visione di futuro desiderabile. Semplificando al massimo, la politica procede per atti dovuti dimenticando che a qualificarne l’intervento sono invece gli atti voluti, cioè quelli che ne descrivono la più alta idealità, nella speranza e convinzione di saperla poi tradurre in azione di governo. Gli atti dovuti sono quelli che – a lungo andare – anestetizzano la politica, ne smussano gli angoli, ne minano la capacità di essere l’arte del possibile (o ancora meglio dell’impossibile che diventa possibile). Gli atti dovuti, lì dove è sempre più diffusa l’idea che “non esistano alternative”, riescono a ridurre la politica a esercizio di ragioneria, anche laddove – come nel caso di Trento – la si dovrebbe intendere come punto più avanzato di sperimentazione dei concetti di autonomia e di autogoverno, di responsabilità e sviluppo di comunità.
*Nello scrivere questo testo – a due giorni dalla notizia che la Giunta Provinciale ha attivato, anche nei miei confronti, le procedure per recuperare un credito presunto di 119.000 Euro relativo all’occupazione del Centro Sociale Bruno – l’obiettivo che mi sono prefissato non era quello di attivare solidarietà più o meno di facciate e nemmeno quello di animare le fazioni dei pro e dei contro nello scontro fratricida dei commenti. L’unico motivo per proporre questa riflessione è legato alla necessità di rendere il territorio trentino (sia per quanto riguarda le istituzioni che la comunità) più reattivo e curioso di fronte ai cambiamenti che caratterizzano il tempo che stiamo vivendo.
**pubblicato sul Corriere del Trentino del 4 agosto 2016