"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Alessandro Branz
(31 ottobre 2016) In questo breve contributo non è mia intenzione entrare nei dettagli della riforma costituzionale, sia per ragioni di spazio sia perché il rischio sarebbe quello di inoltrarsi in “tecnicismi” difficili da comprendere. Mi limiterò quindi a toccare tre questioni di carattere metodologico, che costituiscono, a mio parere, altrettanti snodi fondamentali per capire quanto sta succedendo.
Innanzitutto va detto che quello di superare il c.d. “bicameralismo perfetto” (sarebbe meglio definirlo “paritario”, per non generale equivoci) è un obiettivo condivisibile: del resto se ne sta discutendo da anni sia in sede scientifica che a livello di opinione pubblica. Non è questo il punto: il punto è “come” questa operazione viene effettuata.
Perché se è vero che nelle democrazie europee più avanzate la titolarità nel dare o ritirare la fiducia al governo spetta alla sola camera bassa (nel nostro caso la Camera dei deputati), è altrettanto vero che in questi sistemi la camera alta (il Senato) continua a svolgere una funzione essenziale e per nulla cerimoniale: si guardi, per fare un esempio, alla Germania, ove il Bundesrat incide -eccome- sulla legislazione e sulla stessa funzionalità dei governi, soprattutto quando le maggioranze nei due rami del Parlamento sono di diverso colore. E’ tutta una questione di “equilibri”: ebbene, la riforma che andiamo a sanzionare col referendum non prevede né assicura questi equilibri, sia per il depotenziamento del Senato dal punto di vista della sua composizione, sia per il ridursi della “legislazione concorrente” che in tutti i paesi (ed anche in Italia) permette quelle mediazioni e quei compromessi che sono il “sale” di un buon funzionamento della democrazia.
E qui vengo al secondo punto del ragionamento. E’ palese che esista uno stretto collegamento tra riforma costituzionale e sistema elettorale: chi lo nega o è ignaro della cosa o in mala fede. Ebbene: anche da questo punto di vista le prospettive che abbiamo davanti destano viva preoccupazione. L’Italicum, infatti, oltre ad essere un unicum nel panorama europeo, ha il difetto, così com’è disegnato (soprattutto a causa del “premio di maggioranza”), di concentrare e verticalizzare tutto il potere in capo alla lista vincente ed al suo leader, con la possibilità, per nulla remota, che ne traggano beneficio movimenti, forze politiche o personaggi poco attendibili dal punto di vista democratico (peraltro la mozione recentemente presentata in Parlamento dalla maggioranza PD è vaga e poco chiara). Ne consegue che la mancanza di equilibri sopra descritta e lo spostamento del baricentro sulla sola Camera dei deputati possono aggravare questa situazione ed accentuare il pericolo di un sistema “maggioritario” unilaterale e fondato sui soli “rapporti di forza”, quindi poco dialettico e per nulla disposto alla mediazione ed al confronto.
Ma la questione fondamentale, quella che mi indurrà a votare NO al referendum, è proprio l’uso che di quest’ultimo è stato fatto dal gruppo dirigente nazionale del PD. Innanzitutto, agli osservatori più attenti, è apparso subito strano che a raccogliere le firme fosse proprio il partito che a livello politico-parlamentare si era fatto promotore della riforma, e questo perché, nella logica del sistema, dovrebbero essere invece gli “oppositori” (e non i “fautori”) della riforma a mobilitarsi e scendere in campo. Una circostanza, si badi, per nulla banale, perché rende palese quello che -a mio parere- è il dato più eclatante e preoccupante di tutta la vicenda: l’uso palesemente “plebiscitario” che il Presidente del Consiglio, nonché leader del PD, ha fatto (ed in parte fa ancora) del referendum costituzionale.
Infatti quando Renzi attribuisce al referendum una valenza da “fine del mondo”, facendo capire che in caso di esito negativo lui ed il suo staff si sentirebbero nel dovere di dimettersi andando a nuove elezioni, non solo dice una cosa non vera (infatti i sistemi parlamentari, per loro fortuna, hanno la forza e gli strumenti per risolvere le crisi), ma anche demagogica e tale da impedire lo svilupparsi di una discussione aperta e responsabile, come invece una materia delicata come quella costituzionale meriterebbe. Senza dimenticare gli accenti populistici che contraddistinguono la campagna referendaria: infatti quando si dice che la riforma serve soprattutto a “tagliare i costi della politica” (nella fattispecie dei senatori), si dirà una cosa in sé auspicabile, ma si tende anche a strizzare l’occhio a quei populismi che pure in Italia sono presenti e che nascondono seri pericoli per la democrazia.
Insomma: se sono d’accordo sulla necessità della riforma, non lo sono sui contenuti e meno ancora sui modi in cui viene proposta, ed è quindi la forza della ragione a spingermi verso un voto negativo. Naturalmente, alla luce dell’ispirazione riformista che mi ispira, sono sempre fiducioso che le cose possano cambiare. Il cambiamento però non può essere qualcosa che cade dal cielo, ma il frutto di una maggiore consapevolezza di quanto accade e di una conseguente azione collettiva.
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