"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (56)
di Michele Nardelli
(7 novembre 2016) Mentre leggo l'editoriale di Simone Casalini sul Corriere del Trentino di domenica (in allegato), a conclusione della pregevole inchiesta che quel giornale ha realizzato attraverso i profondi cambiamenti che segnano la vita sociale e culturale delle aree urbane della città di Trento, avverto una profonda analogia con ciò che scrive Marco Revelli nel suo viaggio dentro luoghi simbolici della trasformazione post fordista di questo paese1.
L'inchiesta del Corriere (articolata in trenta puntate) si è conclusa al quartiere delle Albere, lo spazio urbano nato sulle macerie della vecchia Michelin, croce e delizia di un progetto urbanistico che ha fatto della cosiddetta edilizia contrattata il suo mantra.
Nella mia testa si snoda il parallelo fra i luoghi della capitale italiana dell'auto, le cui fabbriche scandivano come un gigantesco cuore il pulsare della vita della Torino metallurgica e il principale insediamento operaio di una piccola città come Trento che da solo occupava più di millecinquecento persone (ma forse sarebbe più giusto parlare di famiglie, considerato che il “sistema Michelin” rappresentava la versione paternalistica e autoritaria del modello olivettiano).
Le tracce di quella storia oggi sono quasi del tutto cancellate, se non nella memoria di qualche vecchio o nella tragica eredità dei sottosuoli, a Torino come a Trento. Insomma, seppellite. Nemmeno una via si è avuto il coraggio di dedicare, in questa nostra città dove le famiglie “giuste” ancora contano più di quanto si possa immaginare, a chi come Giuseppe Mattei di quella vicenda umana fu forse il principale protagonista.
Non c'è in me alcun senso di nostalgia, anche se il rischio di uno sguardo se non indulgente almeno romantico verso il passato mi è ben chiaro. E che forse un po' riecheggia anche nelle pagine torinesi di Marco Revelli. Perché non è il “come eravamo” l'oggetto della riflessione, ma come passato, presente e (immaginazione del) futuro possono concorrere alla profondità del nostro sguardo. Nell'analisi come nella progettualità.
In questo intento, tanto una pagina di buon giornalismo come il contributo di un intellettuale che s'interroga sul proprio tempo, possono aiutarci a colmare l'assenza della politica prima ancora che delle istituzioni, mondi distratti dall'ultimo miglio o dalla mediocre gestione dell'esistente, quando non da una meschina rincorsa del consenso.
Non ci sono le risorse, si dice. E non ci si interroga se questo abbia a che fare con le politiche neo centralistiche nella dislocazione di risorse e poteri (quel che sta avvenendo in Italia, a prescindere dalla colorazione politica dello schieramento al governo, e ahimè anche nel nostro Trentino). Oppure con il vuoto di fantasia e di capacità di sperimentazione della politica. Perché – sempre per rimanere al quartiere delle Albere – l'edilizia contrattata non era l'unica strada possibile.
La fantasia (e un po' di coraggio) avrebbe potuto portarci ad immaginare su quella porzione tanto importante di città la mobilitazione e la responsabilizzazione di un'intera comunità, quale sarebbe potuta avvenire attraverso ad esempio la creazione allo scopo dei Buoni Ordinari del Comune o l'attivazione di una “finanza di territorio” (mi riferisco al sistema delle Casse Rurali, che per salvarsi dalle dinamiche del mercato globale altra strada non hanno se non quella di ancorarsi al territorio e alla sua valorizzazione; all'ITAS, che oltre a sponsorizzare la squadra di volley potrebbe riscoprire le proprie origini; a PensPlan e Laborfonds che invece di scommettere sul mercato globale dovrebbero almeno in parte pensarsi come strumento di generazione territoriale...) se solo fosse stata più attenta nel sostenere le ragioni comunitarie in quel delicato passaggio della vita della città.
Un investimento della comunità che avrebbe potuto dare un significato molto diverso alla realizzazione del nuovo quartiere cittadino del quale il Muse poteva rappresentare e ancora rappresenta la quintessenza. Sarebbe stato davvero tutto diverso ed oggi quegli stessi appartamenti vivrebbero dell'operosità delle famiglie e delle grida dei bambini, invece del silenzio assordante del vuoto.
Come dicevo, è nel volgere lo sguardo al futuro facendo tesoro del passato (per quanto recente), che dovremmo interrogarci su come venirne a capo, considerando che questa “croce” pesa sull'immagine di una comunità che pure ha saputo in passato investire sulla conoscenza, nonostante fossero in molti a dire che di cultura non si sarebbe potuto vivere.
Venirne a capo significa certamente investire sugli spazi nei dintorni, come sta avvenendo con la localizzazione della Biblioteca universitaria o con l'appropriarsi dell'area verde come di uno spazio dell'intera città; facilitando la nascita di esperienze come “Impact Hub”, generatrici di idee e di lavoro; ricongiungendo quel quartiere al cuore della città attraverso la trasformazione di via Madruzzo in una colorata strada dei fiori. Potrebbe anche voler dire il riprendere in mano la questione di quel patrimonio abitativo delle Albere, magari rinegoziando con la proprietà una partita che non può rimanere lì in attesa di migliori condizioni di mercato.
Parlo del quartiere delle Albere, ma in realtà penso a quel luogo come paradigma di un presente inchiodato fra il non più e il non ancora, che vive alla giornata e ha smesso di porsi domande sul senso del vivere collettivo, che non sa ascoltare quel che pure di nuovo emerge nel fermento delle idee e che pensa alla pianificazione urbanistica – per dirla con Revelli – come ad «un tavolo di negoziazione lenticolare con stakeholders dai denti aguzzi» più che ad un disegno unitario di futuro.
In questo passaggio tanto le aree metropolitane come le piccole città soffrono dello stesso problema, quel vuoto politico che subito qualcuno trova il modo di riempire insieme alle proprie tasche e che richiede – come ci ricorda Simone Casalini – prima ancora che di capacità immaginifica di leggere ciò che avviene nei processi sociali.
1Marco Revelli, Non ti riconosco. Einaudi, 2016
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