"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (57)
di Michele Nardelli
A L'Avana si celebrava il trentennale della rivoluzione cubana. Era il 31 dicembre 1988.
Il muro era ancora lì a dividere la città di Berlino e simbolicamente l'Europa, seppure con la Trabant disegnata nell'intento di abbatterlo. La bandiera rossa sul Cremlino non era ancora ammainata, quand'anche Michail Gorbaciov fosse alle prese con il tentativo di riformare un regime che non ne voleva sapere di glasnost né di perestrojka. E gli arsenali nucleari a fungere da deterrente in un mondo diviso in blocchi militari malgrado una crescente consapevolezza di quella follia.
Nell'arco di qualche mese il mondo non sarebbe stato più lo stesso, ma a L'Avana i festeggiamenti per il trentennale sembravano volessero fermare il tempo. Come sul volo della Interflug, la compagnia della Germania dell'Est che mostrava tutte le crepe di un paese che di lì a poco più di un anno sarebbe scomparso.
Su quell'aereo che da Berlino Est portava le delegazioni italiane1 verso il mar dei Caraibi, insieme a quegli strani compagni di viaggio, tutti uguali con il loro vestito nero dove primeggiava all'occhiello l'immagine di Kim Il Sung, trascorsi il Capodanno più inquietante della mia vita, anche per effetto della condensa che ci colava addosso. Con l'ora di Greenwich, naturalmente, tanto che quando arrivammo all'aeroporto José Martì de L'Avana, era ancora il tardo pomeriggio del 31 dicembre. Effettivamente il tempo si era fermato.
Per festeggiare a L'Avana non erano secondi a nessuno. A cominciare dal delizioso mojto che appena scesi da quello sgangherato Tupolev (o Ilyushin, non ricordo) ci venne offerto nella sala di ricevimento dell'aeroporto prima di accompagnarci all'hotel Habana Libre dove eravamo alloggiati. E, a seguire, ad una nuova festa di Capodanno, questa volta con le delegazioni provenienti da tutto il mondo e i nostri gentili accompagnatori della “sicurezza” che faticavamo a toglierci di torno.
Furono giorni intensi di incontri e di immagini. Quella del “Che” che campeggiava enorme – allora come oggi – sulla Plaza de la Revolución, l'incontro con i dirigenti del Partito comunista cubano interessati a comprendere la diaspora della sinistra italiana, i ricevimenti ingessati nel rispetto del protocollo, le visite al Museo storico e a quello della Rivoluzione (ivi compreso l'omaggio al cavallo impagliato di Cinfuegos), l'interminabile discorso di Fidel Castro (“Acto central por el XXX Aniversario del Triunfo de la Revolucion” recitava il programma ufficiale), la stessa visita all'efficiente ospedale dov'era finito Giancarlo, il mio compagno di delegazione, colto da un terribile ascesso. Eppure tutto questo non riusciva a mascherare (o forse ne era parte) il senso di declino che si respirava nelle vie di una città stanca, malgrado la “Bodeguita del Medio”2 e l'indole festosa di quella gente.
Sensazione di declino che divenne ancora più netta con la visita alla costruenda centrale nucleare a tecnologia sovietica in un paese dove sole e vento di certo non mancavano. Ma il nucleare non era una necessità bensì un'ideologia, era il dominio dell'uomo sulla natura, il delirio delle magnifiche sorti progressive dello sviluppo. In Italia venivamo dal referendum che avevamo promosso (e vinto) ed ora, paradossalmente, mi ritrovavo nel cantiere di una centrale in costruzione che per fortuna non sarebbe mai stata completata. Lo dissi senza reticenze ai dirigenti del Partito Comunista Cubano e l'effetto fu che il controllo poliziesco verso questi italiani “poco ortodossi” si fece ancora più asfissiante.
Fuori dal protocollo, ci alzavamo di buon mattino per cercare di raccogliere impressioni sulla vita quotidiana, incrociando lo sguardo delle persone che incontravamo per caso nelle vie della città vecchia (che ancora doveva diventare patrimonio dell'Unesco), fra l'odore di olio di cocco che usciva dalle case e la rassegnazione che potevi leggere negli occhi delle persone con la carnagione scura che svolgevano i lavori più umili, come se l'egualitarismo si fosse fermato sulla soglia del colore della pelle. Forse un eccesso di zelo nel cercare le contraddizioni di un paese oggettivamente stressato dall'embargo occidentale e dal condizionamento sovietico, e comunque imparagonabile se messo a confronto con le insopportabili condizioni di povertà di gran parte dei paesi dell'America centrale.
E però la libertà di pensiero e di espressione non si può barattare con nulla, nemmeno con il diritto allo studio o con un sistema sanitario considerati il fiore all'occhiello di quel paese. Sapevo della riduzione al silenzio di ogni forma di opposizione, ma in quelle circostanze non potevamo che annusare l'aria, raccogliere immagini e sensazioni. Ne parlai con Gianni Beretta, corrispondente per il quotidiano “il manifesto”, ma pur nel dissenso quello era ancora il nostro mondo, un mondo nel quale fini e mezzi facevano fatica ad incontrarsi.
In quei giorni incontrai per un breve saluto il comandante in capo, nella sua tradizionale divisa militare. La rivoluzione cubana e il terzomondismo avevano rappresentato per la mia generazione un punto di riferimento nella lotta contro l'imperialismo e dunque l'emozione per quella stretta di mano e per quello scambio di parole era forte. Avevo di fronte a me l'eroe della rivoluzione che aveva osato sfidare l'imperialismo nordamericano, il compagno di Ernesto Guevara che pure aveva scelto altre strade lontano da Cuba, il personaggio che aveva dato corpo al sogno di milioni di esseri umani dimostrando che in fondo la scalata al cielo non era impossibile. Eppure Fidel Castro mi sembrò già allora il simbolo di una storia che stava per finire.
Lo scrissi e non era facile. Lo dissi ai compagni che mi chiedevano le impressioni di viaggio e dell'incontro con il “leader maximo”, tanto che per un po' di tempo (qualcuno me lo ricorda ancor oggi) girava un piccolo aneddoto sul fatto che di fronte a Fidel che mi diceva “comunismo o muerte” io gli avrei risposto “muerte”. Ovviamente non era questo il mio pensiero, nonostante la mia ricerca politico/culturale mi facesse sentire già allora sempre più distante da quel mondo e dai suoi rituali.
Tornando al nostro breve racconto, l'emozione non andò oltre a quegli istanti. E quando il giorno successivo visitammo “Expocuba” e assistemmo all'interminabile comizio di Fidel, a prevalere in me era la sensazione di una retorica che cercava di sopravvivere a se stessa, aggrappata ad un tempo che stava per concludersi. Effettivamente la storia, quella del Novecento, stava per finire, ma mi sbagliavo nel pensare che questo avrebbe travolto anche l'esperienza cubana, forse sottovalutandone il radicamento.
Quando sulla via del ritorno scambiai qualche pensiero con un anziano comunista torinese di cui non ricordo il nome, feci fatica a comprenderne l'entusiasmo e, quasi per pudore, lasciai cadere il discorso. Ma nel gelo intenso di Berlino est dove ci fermammo per un giorno in attesa del volo per Milano e dove di lì a pochi mesi un assetto geopolitico che sembrava immutabile sarebbe andato in frantumi, compresi che una vicenda antropologica stava per concludersi e con essa una appartenenza religiosa che credevamo laica, scientifica e razionale.
Una storia finiva ma con essa avremmo dovuto saper fare i conti perché profondamente radicata nelle culture come nei comportamenti. Non sarebbe bastato voltare pagina. Bisognava comprendere «come possano operarsi le derive insensibili che ci trascinano verso il contrario di ciò che ha suscitato la nostra credenza... »3.
Nel successivo mese di aprile me ne andai da Roma e dal partito che in quel viaggio avevo a mio modo rappresentato. Nell'autunno di quello stesso anno, nelle ore in cui il muro veniva abbattuto, in Trentino demmo vita a Solidarietà. Il giorno successivo al nostro congresso Achille Occhetto andò alla Bolognina. Una storia si era conclusa. Eravamo carichi di speranza che la fine della divisione del mondo in blocchi avrebbe portato ad una nuova stagione. Ben presto avremmo capito che non sarebbe stata necessariamente migliore.
Fine anche di questo breve racconto.
Da allora sono trascorsi ventisette anni, l'uomo vecchio e provato che ricordava vagamente il giovane rivoluzionario dell'assalto alla Moncada4 se ne è andato, così come i compagni d'armi d'un tempo, qualcuno per l'età, qualcun altro per essere entrato in collisione con un socialismo dal volto non proprio così umano com'era nelle loro speranze. Rimane un paese in bilico fra l'orgoglio di aver saputo resistere nella propria indipendenza ed il desiderio di allinearsi alla cultura del consumo e dell'avere.
Ma fra la popolazione che rende l'ultimo omaggio al suo presidente e le grida di giubilo dei fuoriusciti cubani a Miami non ho alcun dubbio che sarà dai primi che potrà venire la ricerca di una strada ancora diversa capace di coniugare i valori della giustizia e della libertà.
1Quella del Partito Comunista Italiano guidata da Fabio Mussi e quella di Democrazia Proletaria composta da Giancarlo Saccoman e da chi scrive.
2Si tratta del noto locale frequentato da Ernest Hemingway
3Edgar Morin, Autocritica. Moretti&Vitali editori, 1991
4Si tratta della Caserma Moncada di Santiago de Cuba in cui il 26 luglio 1953 avvenne uno dei primi atti di guerriglia contro il regime di Batista da parte di un gruppo di uomini guidati da Fidel Castro
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